Messe latine antiche nelle
Venezie
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Rassegna stampa
IL DIBATTITO
Meno sociologi in chiesa
Ridate la tonaca ai pretidi Beppe Gullino
Caro direttore,
ho letto con interesse, e anche con qualche malinconia, la nota di Alessandro Zangrando sul Corriere del Veneto di domenica scorsa "Vita dura per il prete in tonaca", in cui si dà voce a uno di quei pochissimi sacerdoti che ancora portano abitualmente l'abito talare invece del clergyman. L'ambientazione era la Venezia del Carnevale, dove un prete che veste all'antica rischia di essere scambiato per una maschera, dato che ormai la tonaca, fuori di chiesa, è relegata agli spot televisivi o ai film. Al di là di questo, l'inserimento nell'amena attualità veneziana è servito alla pietas dell'autore per "alleggerire" il tema con approccio morbido. La questione che c'è sotto, però, è reale e non di poco conto. Sappiamo che ormai da molto tempo è in atto un processo di laicizzazione del clero, per cui esso tende a confondersi con i "civili", a mimetizzarsi in qualche modo. Si dirà: il clergyman è più pratico, più aderente ai tempi, serve ad attenuare distanze, a smorzare barriere psicologiche, a favorire socializzazioni (per la stessa ragione i militari in libera uscita non sono più tenuti a portare l'uniforme), e poi quel che conta è la sostanza, non la forma.
Vero, ma certe considerazioni rischiano di scadere in sofismi: se infatti accettiamo questa logica, perché il papa non potrebbe andarsene a spasso in jeans? Ovviamente può farlo, ma credo che non piacerebbe ai più, non sta bene. È chiaro che, nel suo processo evolutivo, la Chiesa sente il bisogno di avvicinarsi alle masse sociali, specie in un'epoca, come questa, dove la crisi della fede è forte qui in Occidente. Ci sono poche vocazioni, il collante religioso evidenzia grosse crepe, passiamo il tempo ad ascoltare i messaggi televisivi o ad inseguire quelli di Internet anziché il richiamo liturgico. Bene, ciò posto, va anche detto che in chiesa talvolta non ci andiamo per una sorta di assuefazione, perché sappiamo in anticipo quel che ci attende la domenica: quasi sempre un paternalistico discorsetto sociologico ed autoreferenziale. Del tipo: dovete essere buoni comprensivi generosi, aiutare soccorrere perdonare e magari praticare il volontariato.
Intendiamoci: che tutto ciò sia giusto importante bello e costruttivo, è fuori discussione. Ma - mi chiedo - c'è bisogno di andare in chiesa per saperlo? Non basta seguire la legge naturale, non son forse scritti questi valori nella coscienza di ognuno? Ancora: forse che non abbiamo a disposizione conferenze e lezioni di sociologhi, a bizzeffe? Ma poi basta ascoltare Bertinotti o leggersi qualsiasi programma di qualunque partito o qualsivoglia sindacato: dovunque troviamo esibita la stessa offerta, c'è bisogno di riproporla la domenica con la messa di mezzogiorno?
So che sto peccando di presunzione, ma avverto la nostalgia delle prediche di un tempo (ho l'età per ricordarmele), quando in chiesa c'era l'organo e si sentiva parlare anche di trascendenza, di speranza nell' aldilà, di una nuova vita fatta di gioia eterna o di eterno castigo, di una giustizia superiore che non coincideva necessariamente con l'attuale misericordia elargita a tutti, sempre e dovunque.
Ricordo un commento al Vangelo ascoltato tanti anni fa, grande e semplice ad un tempo. Disse quel prete che il punto focale della fede cristiana era questo, rispetto ai fondamenti di altre religioni o degli atei: noi crediamo che un uomo sia morto e poi resuscitato. Punto. Da questa verità, continuò a spiegare, discende tutto, a cominciare da uno dei primissimi corollari: che Gesù scelse gli apostoli, cioè gli strumenti della diffusione del suo credo, fra gli sprovveduti. Non li cercò tra i professionisti, docenti, medici, avvocati, uomini colti insomma: i dodici che lo seguirono erano quasi tutti analfabeti, contadini e pescatori di corta intelligenza e ancor più limitato sapere: nel momento del pericolo il migliore fra essi, Pietro, il futuro principe della Chiesa, prima dell'alba, prima che il gallo canti, rinnega Cristo tre volte. E lo fa dopo esserci vissuto accanto per anni, giorno dopo giorno, e aver creduto e assistito ai miracoli dal primo all'ultimo, e dopo che il tradimento gli era stato previsto e annunciato dal maestro solo poche ore prima. Ebbene, disse ancora il prete, quest'uomo rozzo e debole diventa la pietra d'angolo su cui si edifica la Chiesa, e i suoi compagni che per paura fuggono e si nascondono, poi assieme, all'improvviso, escono dal loro rifugio e vanno tra la folla e predicano - loro, analfabeti - in molte lingue e sempre maggiori folle li ascoltano e si convertono e li seguono. Quel parroco parlava dello Spirito Santo: è un buon tema, uno dei tanti che i nostri sacerdoti conoscono benissimo, ma non commentano quasi più.
E allora mi chiedo: scomparso quel sacerdote, davvero oggi non mi resta che leggere François Mauriac o frequentare qualche centro teologico per conoscere i fondamenti della nostra fede? Pare di sì, a meno di imbattermi in qualche suo collega con la tonaca, sperando di trovarne uno, passato che sia il Carnevale.
da "Corriere del Veneto", 12 febbraio 2004