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S. Pietro Orseolo
di Antonio Niero
Sono
incerti gli antenati, il luogo e il tempo di nascita di s. Pietro Orseolo.
Secondo la tardissima tradizione, raccolta dal Manfredi, sarebbe nato a Venezia
nel 926, in parrocchia dei ss. Filippo e Giacomo, dalla famiglia Orseolo,
oriunda da Altino, trasferitasi nel 456 a Torcello e poi nelle isole realtine.
Invece secondo la cronaca del Dandolo proveniva da Eraclea: per l'anonimo
rivipulense, citato dal Grandís, gli Orseoli erano originari dai Parti,
distintisi nella caccia degli orsi, da cui il cognome e l'arme dello stemma: per
il Wion provenivano dalla Germania.
In realtà, poteva essere tutt'al più una famiglia
della primitiva società valliva, legata all'onomastico Orso, frequente nei
documenti lagunari anteriori al mille.
Dal matrimonio celebrato, nel 946 secondo la
tradizione, con Felicia di casa Malipiero, su testimonianza di tarde
documentazioni, annoverata lei pure nei cataloghi agiografici veneziani,
sarebbero nate due figlie, maritate poi a Giovanni Gradenigo e a Giovanni
Morosini, legati a lui, più tardi, da vincoli di amicizia e perfezione e un
maschio, a cui impose il suo stesso nome. Assicurata ormai la discendenza della
famiglia avrebbe deciso di praticare con la moglie la castità perfetta.
Tra bagliori di fiamme
L'episodio centrale della sua vita è dato dalla
elezione a doge nel 976; tuttavia dalle documentazioni riferite dal Cessi
risulta presente in due atti pubblici antecedenti al dogado. Infatti sottoscrive
nel giugno del 960 il divieto di commercio degli schiavi, dove si firma Petrus
Ursiolo e nel luglio del 971 il divieto di commercio con i Saraceni, nel quale
appare quarto nella lista dei firmatari: segno di una importanza particolare
assunta nella vita veneziana.
Le circostanze che ne determinarono la nomina al
dogado sono note. L'11 agosto del 976 era scoppiata prepotente la rivolta del
popolo contro il doge Candiano IV. Un complesso di cause o di natura familiare,
quali il ripudio della moglie legittima e l'ingiusto connubio con Waldrada, una
principessa tedesca, o d'indole politica, come lo spadroneggiare della fa-
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zione filo-tedesca opposta a quella nazionale o
l'indirizzo dispotico del doge, avevano esasperato i veneziani.
Poiché la sommossa, che mirava ad impadronirsi
del doge con l'assalto al palazzo dogale rasentava l'insuccesso, dovuto
all'energica difesa della guardia personale, la folla decisa a por fine ad ogni
modo alla politica dei Candiano, appiccò l'incendio, che in breve distrusse il
palazzo ducale. Poi sospinto dal vento e favorito dalla stagione estiva, si
estese a buona parte del nucleo realtino, incenerendo chiese e case.
Il doge costretto alla fuga, come una fiera
stanata, cercò la salvezza attraverso l'atrio della basilica di s. Marco. Ma qui
sorpreso dai congiurati, che forse avevano calcolato il piano di fuga, fu
barbaramente ucciso, nonostante un troppo tardivo pentimento, nonostante avesse
chiesto pietà almeno per il figlioletto, in braccio alla nutrice nato dal
connubio con Waldrada.
Ormai la rivolta aveva raggiunto lo scopo;
tuttavia nell'efferatezza della violenza di parte, i due cadaveri furono portati
in macabro trionfo per la città, sino al luogo del pubblico macello in segno di
assoluto disprezzo di ogni sentimento di pietà e di religione. Soltanto un uomo
venerando Giovanni Gradenígo, genero dell'Orseolo, ricompose le salme infelici e
le traghettò nel monastero di s. Ilario di Fusina, dove le seppellì accanto agli
altri dogi.
Sua elezione al ducato
Il palazzo ducale e parte della basilica marciana
erano un cumulo di macerie fumanti. L'assemblea per l'elezione del nuove doge
non si poteva tenere in questi luoghi consueti: si tornò a s. Pietro di Olivolo,
nella Cattedrale, come nel passato. Nella ricerca di un nome che fosse al di
sopra delle fazioni opposte, l'ambiente sacro significava un invito alla pace
interna. Risultò eletto Pietro Orseolo. La sua probità di vita, la sua
inclinazione a contemplare le verità eterne più che alla vita pratica, erano ben
note, tali da indurlo a rifiutare, ma inutilmente, all'incarico, nel timore di
ostacolo per la perfezione, come afferma Giovanni Diacono. Soltanto s. Pier
Damiani sospetta, senza dimostrarlo, un tacito accordo dell'Orseolo con i
congiurati: d'altronde Giovanni Diacono, per quanto non sia molto probante,
essendo filo-orseoliano, esclude assolutamente una partecipazione dell'Orseolo.
Fatto doge, con lui la politica veneziana
ritrovava la linea tradizionale che rifuggiva da posizioni estremiste. Anzitutto
cercò di regolare le
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questioni lasciate aperte con l'imperatore dalla
morte di Candiano: il 27 settembre del 976 erano rilasciati i beni di Waldrada,
l'infelice consorte del doge trucidato, che si era rifugiata presso la corte
imperiale: il 12 ottobre del 977 veniva firmato un patto di amicizia tra Venezia
e il Comune di Capodistria.
Nella politica interna si accinse all'opera di
restaurazione edilizia dopo l'incendio: tra le prime opere medicò le ferite
della basilica di s. Marco, dove, a conoscenza di pochi, ripose le reliquie
dell'Evangelista in luogo più sicuro.
Nel contempo non trascurava gli interessi dei
cittadini, con elargizioni di denaro per i più poveri, con la costruzione di un
ospizio presso la basilica dalla parte del campanile per loro e per i pellegrini
ai luoghi santi.
Ma i nemici, che l'accorta diplomazia imperiale
aveva saputo suscitare all'esterno e mantenere vivi all'interno nei gruppi
filo-tedeschi in un'azione di resistenza alla politica del doge, si davano da
fare per farne crollare l'opera pacificatrice.
Forse con uno scopo diplomatico della corte
imperiale, del quale ci sfuggono le prove, giungeva a Venezia Guarino abate del
Monastero cluniacense di Cuxà nei Pirenei, pellegrino o no ai luoghi santi, il
quale ospite del doge lo invitava alla rinuncia del dogado e del mondo.
Soprassedette per allora l'Orseolo a qualsiasi
decisione: il bene della patria esigeva la sua opera poiché serpeggiavano ancora
in città i sintomi della rivolta. Comunque prima del 31 agosto del 978 egli
riusciva a comprimerli, come fa fede l'imposta di quest'anno per la salvezza
della patria.
Ma pare che l'unità ideale dei cittadini, posta
come condizione per la sua elezione e il suo governo fosse venuta meno; pare
anche che la corte imperiale minacciasse un intervento armato. Guarino era
ritornato a Venezia nell'agosto del 978, con reiterate pressioni perché fuggisse
dal mondo (ed era segreto latore di non pacifici propositi imperiali?).
A lui si aggiungevano nell'opera di persuasione
anche s. Romualdo e Marino, eremiti nelle campagne eracleesi, almeno secondo il
Damiani. Essi avrebbero prospettato all'Orseolo la fuga come un atto di
giustizia, una tardiva riparazione, un gesto di resipiscenza alla sua
partecipazione nella congiura anti - Candiano. Il Petrarca ci presenta s.
Romualdo addirittura deciso di lasciare le lagune per la salvezza del doge.
È difficile
scoprire il vero motivo nell'azione romualdina ed i rapporti con Guarino: forse
è una interpretazione filo-imperiale del Damiani, o come bene dice il Tabacco,
risulta effetto di tradizione monastica.
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Fuggitivo per Dio
Qualunque sia la soluzione che si vuol dare,
nella notte tra il 31 agosto e il 1 settembre, il doge prendeva la fuga verso
Fusina, all'insaputa di tutti (moglie e figlio sarebbero stati inviati in villa
di campagna ad Eraclea, secondo tarde versioni, o a passeggio per la città)
accompagnato solo da Giovanni Gradenigo e Giovanni Morosini, suoi parenti, e dal
gruppo dei suoi amici spirituali: Guarino, Romualdo e Marino.
Il gesto era significativo. Per il Morghen
cogliamo in esso alcuni degli aspetti più evidenti della potenza e della
efficacia esercitata dagli ideali della riforma (intendi di Cluny) su personaggi
e ambienti, che per la loro stessa natura potrebbero sembrare ad essi poco
consentanei.
A s. Ilario, nel monastero benedettino, si
sottoponeva alla tonsura: con il gesto, che non indicava, come si è supposto da
alcuno, una violenta costrizione alla fuga, ormai abdicava al mondo e diventava
membro della vita clericale. Ma quante cose gli potevano suggerire quel
monastero e quella chiesa! Lì, se non stesse fuggendo, sarebbe stato sepolto
come i suoi predecessori, come l'immediato predecessore, l'infelice Candiano IV.
Forse anche per lui non era possibile una fine diversa. Certo toccava con mano
la caducità degli onori in quel mattino di settembre, in quel silenzio delle
lagune e delle campagne.
La difficile operazione della fuga da Venezia,
come la definisce il D'Abadal, così si era conclusa: all'indomani, dopo un
inutile tentativo di raggiungerlo da parte dei suoi sostenitori, almeno secondo
la tradizione, il partito dei Candiano riprendeva il potere con il nuovo doge
Vitale, ma con una politica ispirata piuttosto agli esempi del benefico
intermezzo orseoliano. Da s. Ilario di Fusina la comitiva, attraverso Milano e
Vercelli, secondo Giovanni Diacono, o con lieve diversione per altri, si avviò
per la via di Provenza (con sosta a Narbona) al grande monastero di Cuxà (luogo
da non confondere con Murano, con Cosa in diocesi di Concordia o con Chioggia
come interpretarono gli agiografi del seicento) nella contea di Confluent nel
Rossiglione, centro di idealità cluniacense e protetto dalla casa di Barcellona.
Qui l'Orseolo recava con sé da Venezia alcuni
tesori: oro, argento, pietre preziose e gran parte delle sue sostanze, che
consegnò all'abate. La vita nel monastero si svolse in due momenti: in una fase
cenobi-
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tica, secondo la versione benedettina, e in una
eremitica, secondo quella camaldolese. È
difficile stabilirne la priorità.
Monaco a Cuxà
Secondo il Damiani, l'Orseolo si ritirò assieme
al Gradenigo prima e poco dopo anche con il Morosini, nell'eremo della Longadera,
presso un bosco vicino al monastero, dove s. Romualdo e Marino fedeli all'ideale
eremitico e poco inclini al metodo di Cluny avevano rinnovato il loro consueto
sistema di vita.
Il discipulato da s. Romualdo a preferenza da
Guaríno potrebbe significare la maggior vicinanza dell'Orseolo allo spirito
romualdino, dovuto forse a maggiore intensità di rapporti, a maggiore
corrispondenza di temperamento italico.
S. Romualdo ammaestrava i suoi discepoli secondo
la rigida tradizione dei Padri del deserto, alternando la vita tra il lavoro
agricolo, l'orazione ed una severità di digiuni infrasettimanali impossibili per
l'Orseolo. Egli chiese al maestro un allentamento dell'aspra severità
digiunativa, incapace com'era di sostentarsi con metà di paximatium, il pane
biscotto. S. Romualdo, fedele d'altronde alla discrezione benedettina, gli
accordò un supplemento nella razione. Invece la versione benedettina lo presenta
come un ideale della vita cenobitica, incline ai lavori più umili (lavatura di
vasi fetidi, dei piedi ai pellegrini, spazzare la cucina, i dormitori, capacità
di sedare le discordie dei confratelli) ed alla custodia della chiesa monastica
in funzione di sacrista, riposando lui di alta statura, in una cella così
stretta da restare accoccolato, con una pietra come guanciale. Dotato di spirito
profetico, avrebbe predetto al figlio Pietro, recatosi a visitarlo, l'elezione
al dogado con sagge raccomandazioni di governo e di rispetto dei diritti
ecclesiastici.
L'esemplarità della sua vita pare destasse un
interesse sempre crescente nell'alta società catalana, tra vassalli e signori,
nella quale fece conoscere aspetti della civiltà lagunare, rinnovando, in
particolare, in Guarino, gli entusiasmi per i "loca sancta". Qualcuno come l'Havet
ha sospettato che le lettere di papa Silvestro II per l'elemosine in favore dei
cristiani di Palestina, siano state ispirate da Guarino, che ne era amico e
quindi in ultima analisi dall'Orseolo. In particolare si volle attribuire all'azione
orseoliana la rinuncia al mondo di Oliba Cabreta, conte di Cerdogna, fatto
conoscere all'Orseolo da Guarino stesso.
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Poichè solo dopo il 988, come ha dimostrato il
Tabacco, Oliba si fa eremita romualdino, ed in quest'anno o in quello prima,
avvenne la morte dell'Orseolo, (sempre secondo il Tabacco che scarta i
tradizionali 982 o 997), si vollero mettere in relazione i due fatti quasi che
il Cabreta, il quale sempre aveva rifiutato di seguire i moniti dell'Orseolo per
la fuga dal mondo quand'era vivo, si sia deciso farlo dopo la sua morte.
Ed essa avvenne così. L'Orseolo, preannunciato
della fine tre giorni prima, si dispose a ricevere i sacramenti, desiderando di
vedere il Cabreta. Fattosi sedere su uno sgabello per accogliere il conte, fu
sorpreso dalla morte circa l'ora nona del 1 gennaio 988, secondo codesta data
accettata anche dal D'Abadal, pronunciando le ultime parole: "in manus tuas
Domine, commendo spiritum meum". Il Cabreta giunse quando l'Orseolo era già
spirato: allora si profuse in pianti e gemiti decidendo la fuga dal mondo,
sebbene da tempo anche s. Romualdo gli avesse prospettato Montecassino come
unica possibilità di salvezza in penitenza delle sue colpe. Ma la decisione
finale avvenne per opera dell'Orseolo, che poteva dimostrargli in concreto la
rinuncia al potere.
NOTA LITURGICA
L'Orseolo rimase sino al 1027 sepolto nel
chiostro del monastero. In quest'anno in seguito a fatti straordinari (luce
notturna sulla tomba e miracoli) fu traslato da Oliba, figlio del conte e
vescovo di Wick (1018-1046), in sostituzione del vescovo di Elna, nella chiesa e
posto alla venerazione dei fedeli. Quattro secoli dopo, il 12 aprile 1487, le
sue reliquie furono trasferite in un altare nella chiesa di s. Michele di Cuxà:
nella pala era raffigurato s.
Romualdo con l'Orseolo ai suoi piedi, (e questi
era invocato dai fedeli in particolare contro il mal di denti), con una lunga
iscrizione.
Una ulteriore traslazione avvenne il 6 dicembre
1644 sotto l'abate Michele di Salabardeneyra: le reliquie del Santo erano
visibili ed in sacrestia si conservavano il sasso, dove si diceva avesse
riposato lasciandovi l'impronta del capo ed un cristallo adoperato da lui, utile
nel male agli occhi. La fama di santità in Venezia continuò nei cronisti e
storici dipendenti da Giovanni Diacono: in particolare nel 1491 veniva effigiato
tra i Santi nella pala dell'altar maggiore di Praglia, per opera di Pietro
Delfino. Le altre testimonianze sono date dall'Egnazio, dal Wion, dal catalogo
Tiepolo, dal Bucelino e dai consueti repertori agiografici.
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Nel 1713 il doge Cornaro, appoggiato dal Card.
Barbarigo, vescovo di Padova, insistette presso la Santa Sede per il
riconoscimento ufficiale del culto, che fu concesso il 18 aprile del 1731, in
seguito di nuove suppliche del doge Mocenigo e dichiarazione di santità da parte
di papa Clemente XII.
In quella circostanza fu inviata a Venezia una
preziosa reliquia anche con l'appoggio di Luigi XV, Re di Francia, accolta prima
a s. Giorgio Maggiore, con solenni funzioni, essendo abate Bonaventura Finardi.
In Senato furono avanzati progetti per erigere in s. Marco un altare in suo
onore, che non furono mai tradotti in pratica. Il doge Ruzzini ricordò il
trasporto delle reliquie nella coniazione delle oselle.
La festa, stabilita il 14 gennaio, era di
palazzo, con processione del doge in basilica a venerare le reliquie. In
quell'occasione Nicola Porpora compose l'oratorio Sanctus Petrus Urseolus,
eseguito nel conservatorio degli Incurabili nel 1733. Alcuni anni dopo, nel
1744, veniva eretta in s. Gallo, che fu uno dei luoghi sacri al Santo, per
esservi stato trasferito là nel 1581 l'ospizio da lui fondato (senza però che il
toponimo Rusolo sia corruzione di Orseolo) una confraternita in suffragio delle
anime del Purgatorio, sotto la sua protezione.
Distrutto il monastero di Cuxà con la rivoluzione
francese, le reliquie del Santo furono trasferite nella chiesa parrocchiale di
Prades; poi nel 1862 un gruppo di pellegrini ricostruì una cappella nell'orto
dell'Eremo in onore dell'Orseolo.
Ora in Perpignano si conserva una parte insigne
delle sue reliquie.
NOTA ICONOGRAFICA
Il Santo è raffigurato in un mosaico del
battistero della basilica di s. Marco, e nella serie dei dogi in palazzo ducale,
opera probabile di Domenico Tintoretto, nella serie iconografica dei Santi
veneziani alla Madonna dell'Orto, voluta dal Patriarca Tiepolo (1622) e tra i
Santi benedettini nelle stanze dell'abate in s. Giorgio Maggiore, immagine ora
scomparsa.
Nella chiesa di Praglia, sappiamo come il Delfino
lo abbia fatto effigiare nel 1491: allo stesso periodo di tempo risale l'altra
immagine nel monastero di Cuxà, ora perduta.
Prima del 1531 Giovanni da Asola lo ritrasse
inginocchiato davanti a s. Romualdo in una portella esterna dell'organo di s.
Michele in Isola, ora in Museo Correr. Un'altra pala d'altare ora scomparsa con
il Santo e s. Romualdo e la moglie Felicia stava nella chiesa camaldolese di s.
Giovanni alla Giudecca, citata dal Martinelli senza data e senza autore. In
nicchie interne nella basilica della Salute, in simmetria con l'altro doge
santo, il beato Orso Badoer, l'Orseolo è ritratto in piedi, in statua opera
probabile del Cavrioli (1670 ca.).
Dopo la traslazione delle reliquie a Venezia la
sua iconografia si arricchisce: è presente nella facciata della chiesa di s.
Rocco, assieme ai principali Santi veneziani, in una nicchia inferiore opera del
Marchiori, nella chiesa della Pietà (perché la chiesa era ducale), in pala
d'altare laterale, nell'atto di ricevere l'abito da s. Romualdo, opera
dell'Angeli; nell'altare fatto erigere dal doge Francesco Loredan, che lo dotò
di teca argentea con scheggie di sue ossa; in s. Aponal
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nella cappella destra opera di Lattanzio Querena,
dove lo aveva visto il Cicogna; nella chiesa di S. Luca in affresco
ottocentesco; nella chiesa di s. Agnese; nella chiesa di s. Giuseppe al
villaggio s. Marco di Mestre, opera recente. Fuori di Venezia è dedicato al
Santo un sacello nella villa Medail a Fiesso d'Artico.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Le fonti principali criticamente certe della sua
vita si riducono alla Chronica di Giovanni Diacomo (citata e commentata
in R. CESSI, Venezia Ducale, I, Venezia 1940, pp. 348-356), da cui
dipendono la Chronica del Dandolo (in RIS. XII, parte I, Bologna 1938,
pp. 180-182) e le vite dei Dogi di M. Sanudo (in RIS. XXII, Città di Castello
1900, p. 134). La documentazione sull'attività pre-dogale è in R. CESSI,
Documenti relativi alla Storia di Venezia anteriori al mille, II, Padova
1944, pp. 70-86.
La sua biografia più completa è sempre: H. TOLRA,
Saint Pierre Orseolo, sa vie et son temps (928-987), Parigi 1897.
L'attività di governo è riassunta in modo
suggestivo da R. CESSI in Storia di Venezia, II, Venezia 1958, pp. 216-
222, e nella elencazione dei fatti in A. DA MOSTO, I dogi di Venezia,
Milano 1959, p. 558, con bibliografia relativa.
Le vicende della nomina al dogado, la fuga, la
vita monastica sono interpretate, secondo una sua visuale in: P. DAMIANI,
Vita Beati Romualdi, a cura di G. TABACCO, Roma 1957, pp. 21, 23, 24, 25,
28, 29, 34.
Pel rapporto Romualdo - Orseolo si veda anche: F.
PETRARCA, De vita solitaria, II, a cura di G. Martellotti, Milano -
Napoli 1955, ed ora anche V. MENEGHIN, S. Michele in Isola di Venezia, I,
Venezia 1962, pp. 2-6.
Sull'elezione e fuga si veda pure: C. G. MOR,
L'età feudale, in Storia politica d'Italia, I, Milano 1952, pp. 364,
366, 367, 987.
Una narrazione in versi è data in L. DAKIN,
The House of Orseolo, Manchester Maine 1952. La vita monastica è riferita
nelle fonti benedettine in J. MABILLON, Acta Sanctorum Ordinis S. Benedicti,
VII, Venezia 1735, pp. 847-860.
Di recente si veda:
A. ALBAREDA, L'abat Oliva fundador de
Montserrat, Montserrat 1931, p. 68;
A. PAGNANI, Storia dei Camaldolei,
Sassoferato 1949, p. 23;
G. PENCO, Storia del Monachesimo in Italia,
Roma 1961, p. 212.
Ma su tutto questo periodo, come pure sulla vita
in generale, è fondamentale:
R. D'ARADAL I DE VINYALS, L'esperit de Cluny,
in Studi Medievali, 11 (1960). pp. 20 e seg.
Tra le fonti veneziane assai numerose va citato
il catalogo del De' Vescovi, con la relativa bibliografia anteriore al 1698.
Posteriormente si veda: G. FONTANINI, De sancto Petro Urseolo, Roma 1730,
fondamentale per il culto e la lipsanologia: e poi la classica opera: Annales
Camaldulenses, I, Venezia 1755, p. 126 e seg., dove il Santo, a torto, è
considerato camaldolese; F. PELLEGRINI, I benedettini a Venezia, Venezia
1880, pp. 5-6.
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Per l'ospizio di s. Marco costruito dall'Orseolo
si veda: E. Miozzi, Venezia
nei secoli, II, Venezia 1957, pp. 349, 352, 385.
Per il culto oltre a E. CICOGNA, Delle
iscrizioni veneziane, V, Venezia 1842, pp. 320, 466, si veda soprattutto:
A. ZIMMERMAN, Kalendarium Benedictum, I,
Vienna 1933, pp. 81, 82, 83;
G. DAMERINI, L'isola e il cenobio di s.
Giorgio Maggiore, Venezia 1956, p. 197.
da G. MUSOLINO - A. NIERO - S. TRAMONTIN, Santi e
Beati Veneziani. Quaranta profili,"Biblioteca Agiografica Veneziana 1",
Venezia, Studium Cattolico Veneziano, 1963, pp. 105-113.
LINK UTILI
Il Beato Pietro Acotanto, di Silvio Tramontin
I patroni di Venezia,
di Antonio Niero
San Pio X, patriarca di Venezia, di
Silvio Tramontin
La Biblioteca Agiografica Veneziana nella
recensione di Paolo Zolli (1968)