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Il linguaggio
dei simboli
Intervista con Cristina Campo
a cura di Gino de Sanctis
Avevo nove o
dieci anni... e dopo aver dato fondo alle fiabe, ai volumi di storia
sacra e a tutto quanto si poteva, allora, consentire come lettura a
un bambino, pregai mio padre di lasciarmi leggere qualche libro
della sua biblioteca. Egli, con un gesto, l'escluse quasi tutta: "Di
tutto questo, nulla, mi disse; poi, indicandomi una scansia
separata: "Questi sì, puoi leggerli tutti, sono i russi. Troverai
molto da soffrire ma nulla che possa farti male". Vivevamo allora a
Firenze, in una strada abitata da molti profughi russi, tra cui
artisti che mio padre, compositore, conosceva. Mia madre, anche lei
musicista, prediligeva la loro musica. Così, come vede, il mio primo
territorio della poesia fu territorio russo.
...
Riferendomi al suo bellissimo saggio su
Čechov e soprattutto a quella più recente "introduzione" che è stata
determinante per l'inatteso successo in Italia di
Racconti di un Pellegrino russo, le
ho chiesto se questi interessi stiano a indicare una "svolta", una
direzione nuova nel suo lavoro dopo anni di frequentazione dei poeti
anglosassoni...
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Non credo di
sapere cosa siano le svolte... La strada è una, solare, da oriente a
occidente. Essa segue quattro linee: il linguaggio, il paesaggio, il
mito e il rito. Sono i motivi fondamentali de Il flauto e il
tappeto. Nelle pagine sul rito, la tradizione bizantina, e
quella de Il pellegrino russo cui Lei accennava, è già
rappresentata: poche pagine, è vero, tanto orrenda è oggi la morte
del rito, prima ancora di quella del paesaggio. Le avevo scritte,
quelle poche pagine, per rendere riconoscenza a Dio che mi aveva
permesso di assistere ancora ad alcuni riti e a coloro che li
rendono ancora possibili. Ma il curioso, lo straordinario, è che
proprio in virtù di quei pochi accenni, mi sono giunti echi
imprevisti, quasi miracolosi: in essi ho trovato il coraggio di
dedicarmi a un nuovo libro che svilupperà quella tematica.
Le domando
che titolo avrà il libro e in che consiste la miracolosità di quegli
echi.
Il libro
s'intitolerà Poesia e Rito. in quanto alle imprevedibili
spinte spirituali... le dirò che i miei più attenti lettori, i
lettori per cui si sogna di scrivere, i veri destinatari del
manoscritto nella bottiglia, si sono manifestati non dal mondo delle
lettere, né, salvo qualche rarissima eccezione, dal mondo religioso,
ma dal mondo della scienza e della tecnologia. Le lettere più
straordinarie che abbia ricevuto erano di due ingegneri elettronici,
di un ingegnere siderurgico, di un biologo, di un medico, quasi
tutti trentenni. Profondi conoscitori di tutti e quattro i temi del
libro e soprattutto avidi studiosi dell'ultimo tema, il rito
appunto, quali lettori di testi liturgici romani, bizantini, di
patristica, di mistica. Devo a loro il coraggio di avere ripreso
questo discorso.
E questo
che lei chiama miracolo?
Sì; dapprima
sì; è stata una grande sorpresa; poi
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l'ho travato
un fatto naturale riflettendo che Solženicyn
è un matematico formato intimamente, spiritualmente, dal rito. Sul
rito egli ha scritto le sue pagine più splendenti, alcune poesie che
sono piccoli classici. Una di queste, Jesuse, sviete tichii,
"Gesù, soave luce", riprende un inno dei vespri bizantini.
Poiché al nome di
Solženicyn Cristina
Campo sembra illuminarsi, le domando se il grande esule sia il suo
scrittore preferito.
E chi altri dovrebbe esserlo
oggi? ... Sebbene privatamente io senta molto Sinjavskij (mi sembrò
di incontrare un fratello leggendo i Pensieri improvvisi e
Voce dal coro) Solženicyn
oggi è qualcosa che ti fa piegare le ginocchia. L'espressione non è
mia, ma è lui "l'apostolo del domani", lui così antico e immemoriale,
quasi un animale preistorico. Il fatto più folgorante è tutto ciò
che la sola presenza sul mondo riesce a cancellare: l'universale
frenesia di tutte queste scimmie impazzite con elettrodi nel
cervello, possedute da ossessioni, terrori e immagini che farebbero
chinare gli occhi per la vergogna a qualsiasi animale. Appare Solženicyn
e quel volto, mortalmente serio, immensamente casto, totalmente
appassionato, e soprattutto libero dalla paura contemporanea di
mostrarsi così..., di colpo, oh!, si dice, un uomo.
La riporto al discorso del
suo nuovo libro. Mi risponde con reticenza.
Non so bene come sarà. Il
saggio è una formula che mi sta diventando pesante. Il rito è vita,
come le Scritture; come il sole che ogni giorno sorge brilla e
tramonta, eppure rimane ineusaribilmente misterioso e diverso.
L'immutabilità del vero rito fu voluta da Dio e da tutte le
tradizioni appunto perché in quel ritorno cosmico, infallibile di
figure si proce-
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desse ogni
giorno un poco di più nella complessità insondabile dei loro
significati: ciò che non lascerà mai esprimere in concetti
razionali, ma solo indicare, alludere in gesti, suoni, simboli
divinamente ordinati.
Ma il suo libro si intitola anche alla poesia. Fra
i due termini v'è un rapporto di necessità? Non a tutti è visibile.
Più si conosce la poesia più ci si accorge ch'essa
è figlia della liturgia, la quale è il suo archetipo, come tutto
Dante dimostra, come dimostrano poeti anche a noi vicinissimi,
Pasternak, per esempio, che nelle opere definitivamente belle ha
sempre dinanzi agli occhi la liturgia. Certo, il paesaggio, il
linguaggio, il mito e il rito, che sono i quattro elementi della
felicità, sono oggi diventati quattro bersagli dell'odio concentrato
dell'occidente. Aprirò il mio nuovo libro con la preghiera
d'astenersi dalla lettura a tutti coloro che sono legati a quella
vecchia e trista fattura che è la parola "estetismo". La
protagonista di questo libro vorrei che potesse essere la Bellezza,
la quale è teologica; sì, è una virtù teologale, la quarta, la
segreta, quella che fluisce dall'una all'altra delle tre palesi. Ciò
è evidente nel rito, appunto, dove Fede, Speranza e Carità sono
ininterrottamente intessute e significate dalla Bellezza. Il
Genesi porta una frase che può tradursi così: "Dio vide che ciò
era bello". Dio ha pietà di noi perché ci lascia ancora
qualche rito, su qualche vetta remota, o in minimi colombari,
perduti, dimenticati nella metropoli. È
il sole sepolto, il lume coperto al quale tutti coloro di cui
abbiamo parlato finora, in oriente e in occidente, hanno acceso le
loro lampade.
da «L'Europa»,
15 febbraio 1975, p. 30, ora in C.
CAMPO, Sotto falso nome, a cura di M. FARNETTI,
II ed., Milano, Adelphi, 1998, pp. 212-215.
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