Messe latine antiche nelle Venezie
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Paolo Zolli e il nuovo rito dei funerali

Quando l’amore per la liturgia tradizionale diventa forza di fede e coraggio di protesta controcorrente

di Fabio Marino

 

La figura di Paolo Zolli difensore della liturgia tradizionale

Paolo Zolli (1941-1989) era un cattolico del tutto alieno da ipocrisia, malinteso rispetto dell’autorità, silenzi e omissioni per conformismo e spirito di gregge, o peggio dall’unirsi a cori cortigianeschi per esaltare mode e potenti del momento, anche in campo ecclesiastico. Nello stesso tradizionalismo, di cui egli fu senza dubbio esponente di spicco, non si lasciò imporre o impose ad altri obbedienze, non accettò mai forme di clericalismo deteriore, che anche in questo ambito tendono a manifestarsi, ma mantenne la propria indipendenza. Questo gli consentì senza guardare in faccia a nessuno, se non alla propria coscienza fondata sulle esigenze della dottrina cattolica autentica, di alzare la propria voce contro gli errori e gli abusi in campo dottrinale, religioso, politico, liturgico diffusi in questi anni di decadenza della Chiesa e della società. E Zolli polemizzava sui quotidiani con il patriarca di Venezia, interpellava le congregazioni romane, compresa quella per la dottrina della fede, e talora ne suscitava il responso, protestava vivacemente per tutto ciò che violasse la concezione cristiana della realtà, soprattutto quando proveniva da chi avrebbe dovuto difenderla e professarla (se ne vedano alcuni esempi in C. Belli, Altare deserto. Breve storia di un grande sfacelo, Roma, Volpe, 1983, pp. 75-88; D. Castellano, Paolo Zolli e il problema dello Stato cattolico, in Saggi di linguistica e letteratura in memoria di P. Zolli, Padova, Antenore, 1991, pp. 5-13; F. Marino, Paolo Zolli e la liturgia, in "Instaurare" 2/1999, pp. 6-11).

La sua protesta, che giungeva fino all’invettiva, non era partito preso, sfogo fine a se stesso, spirito di contraddizione, ma era sempre originata e motivata con piena consapevolezza da un attento sforzo di comprensione degli accadimenti e delle loro cause, cui seguiva con una incrollabile tensione etica la loro valutazione a fronte dei dettami della dottrina della Chiesa, ed era questa, in caso di violazione dei medesimi, a determinare la reazione. Spesso Zolli, professore di dialettologia italiana nelle università di Udine e di Venezia, adottava i metodi delle sue ricerche linguistiche, servendosene con eccezionale efficacia. Un esempio notevole è l’articolo che qui si ripubblica, Applausi ai funerali: la banalità di un tempo che ignora il Dies irae, dedicato a ricostruire le origini del discutibile uso, sia il tempo e le circostanze in cui esso cominciò a manifestarsi, sia soprattutto le sue cause [l'articolo, uscito in origine sul quotidiano "Messaggero Veneto", Udine, 1988, è stato riprodotto in "Civitas Christiana" n° 22-26, 1999-2000, pp. 21-23: in occasione di tale ripubblicazione erano state redatte queste righe].

La variazione della liturgia dei defunti: scompare la messa da morto

È quest’ultimo senza dubbio l’aspetto del maggiore interesse. Se l’inizio dell’uso dei battimani, incompatibile con il senso solenne della morte indotto dalla liturgia tradizionale, che prevedeva quale unico commento il silenzio, deve porsi nel 1973 ai funerali di Anna Magnani, Zolli lo mette in relazione con il mutamento della messa funebre avvenuto pochi anni prima: "da appena otto anni erano caduti il Dies irae, l’In paradisum deducant te angeli, il Libera me Domine, i grandi canti di terrore ma anche di commossa speranza". Qui egli fa specifico riferimento alla prima riforma postconciliare, quella del 1965, che comportò oltre a una profonda variazione dell’Ordinario della messa soprattutto la celebrazione parzialmente in lingua moderna, quindi la "messa in italiano". Già questo fece venir meno i canti latini della liturgia funebre tradizionale. Ma fu soprattutto il messale di Paolo VI del 1970 a trasformare completamente la messa dei defunti e il rito delle esequie, dai testi, al colore dei paramenti, al modo della celebrazione, tanto da far scomparire completamente le forme con cui i cristiani erano abituati da secoli ad accompagnare i loro cari all’ultima dimora.

Innanzi tutto è stata abolita la messa da morto come tale, che nel messale tradizionale si distingue per determinate particolarità nelle formule dell’Ordinario e in certe cerimonie. Si tratta fondamentalmente dell’omissione del salmo Iudica alle preghiere ai piedi dell’altare e della benedizione al popolo alla fine, del dona eis requiem in luogo di nobis pacem all’Agnus Dei, del Requiescant in pace invece di Ite, missa est, dell’uso dell’incenso limitato all’Offertorio e alla Consacrazione, del canto del Vangelo alla messa solenne senza incensazione e senza candele degli accoliti, dell’omissione dei baci e della pace, del fatto che il suddiacono non tiene la patena dall’Offertorio al Pater noster.

Il riciclaggio del Dies irae

I testi sono stati pesantemente modificati, in particolare è stata abolita la sequenza, il celebre Dies irae, il cui valore poetico, insieme con la musica gregoriana che lo accompagna e che è stata il punto di partenza di imperiture composizioni artistiche, è legato indissolubilmente alla liturgia dei defunti. Si può dire che negli ultimi tre secoli non vi è stato compositore che non si sia dedicato alla messa di requiem, e in particolare al Dies irae, tra cui inarrivabile quello di Mozart. Non è certamente esatto che esso oggi sia diventato "facoltativo", come ci è accaduto di udire da un sacerdote che presentava un concerto di musica gregoriana in una chiesa di Venezia il 3 novembre 1999. Il Dies irae è stato propriamente abolito nella liturgia dei defunti, tanto che è del tutto scomparso dai relativi formulari (cfr. Missale Romanum ex decreto sacrosancti Concilii Vaticani II instauratum, ed. typica altera, Romae, Libreria Editrice Vaticana, 1975, pp. 881-914). Per di più, con operazione di cui si potrebbe contestare la legittimità anche solo sul piano culturale, lo si è riutilizzato come testo liturgico in un contesto del tutto diverso. Infatti la vecchia sequenza dei defunti, espunta dalla messa, è stata fatta a pezzi per formare tre "inni" collocati nella Liturgia delle ore riformata, ove possono essere recitati ad libitum rispettivamente all’ufficio delle letture (mattutini), alle lodi e ai vespri delle ferie dell’ultima settimana dell’anno liturgico (XXXIV per annum, cfr. Liturgia horarum iuxta ritum Romanum, ed. typica altera, IV, Romae, Libreria Editrice Vaticana, 1987, pp. 489, 490, 490 s.), quando si ricordano le profezie sulla fine dei tempi. Alla fine di ciascun "inno" è stata applicata una dossologia ("O tu Deus maiestatis,/alme candor Trinitatis,/nos coniunge cum beatis. Amen"), che nell’ultimo sostituisce gli ultimi due versi della sequenza ("Pie Iesu... Amen"): la poco elegante manipolazione rende l’ultima strofa di quattro anziché di tre versi.. Nell’"inno" dei vespri si è pure giunti a toccare direttamente il testo poetico ("Qui Mariam absolvisti et latronem exaudisti" è diventato "Peccatricem qui solvisti etc.", ivi, p. 490), pervenendo nell’ambito dell’assurdo. Ne risulta dunque che i riformatori, smentendo la tradizione, hanno ritenuto il Dies irae inadatto per i defunti.

Confronto testuale: l'orazione della messa dei funerali

Se gli interventi sulle formule del messale riformato, specie nell’eucologia, sono stati numerosi e significativi, ciò vale in modo del tutto particolare per la messa dei defunti. Si metta a confronto, nel testo tipico latino, l’orazione della messa In die obitus seu depositionis defuncti dell’antico messale con la seconda colletta (come la chiamano ora) a scelta del formulario della messa In exsequiis A. Extra tempus paschale del messale di Paolo VI, e parliamo del messale nella seconda edizione del 1975 nell’edizione tipica latina, tralasciando ulteriori variazioni avvenute con le traduzioni:

 

FORMA VECCHIA

Deus, cui proprium est misereri semper et parcere, te supplices exoramus pro anima famuli tui N. (famulae tuae N.), quam hodie de hoc saeculo migrare iussisti: ut non tradas eam in manus inimici, neque obliviscaris in finem, sed iubeas eam a sanctis Angeli suscipi et ad patriam paradisi perduci; ut, quia in te speravit et credidit, non poenas inferni sustineat, sed gaudia aeterna possideat.

(C. Johnson/A. Ward, Missale Romanum anno 1962 promulgatum, Roma, CLV. Edizioni Liturgiche, 1994, n. 5089)

FORMA NUOVA

Deus, cui proprium est misereri semper et parcere, te supplices exoramus pro famulo tuo N., quem (hodie) ad te migrare iussisti, ut, quia in te speravit et credidit, concedas eum ad veram patriam perduci, et gaudiis perfrui sempiternis.

(C. Johnson/A. Ward, Missale Romanum anno 1975 promulgatum. Orationes et benedictiones, Roma, CLV. Edizioni Liturgiche, 1994, n. 1396)

 

Nella forma vecchia si pregava supplici Iddio, di cui è propria la misericordia e il perdono, per l’anima del suo servo o serva, cui Egli ha ordinato di lasciare questo mondo, di non farla cadere nelle mani del nemico e non dimenticarla nell’ultimo giorno, ma di comandare che sia accolta dai suoi santi angeli e condotta alla patria del paradiso, di modo che, avendo sperato e creduto in Lui, non patisca le pene dell’inferno, ma possegga l’eterna gioia. Nella forma nuova, che tra le varie collette a scelta dovrebbe essere quella che dall’antica deriva direttamente, vi sono tutta una serie di omissioni, ma anche delle aggiunte significative: è caduta l’anima, il nemico, il rischio di essere dimenticati, cioè riprovati da Dio, i santi angeli, le pene dell’inferno. Si chiede semplicemente che il servo sia condotto alla "vera patria", ma l’intervento che più sembrerebbe stravolgere il senso dell’orazione dal punto di visto teologico dottrinale è che de hoc saeculo migrare iussisti della messa tradizionale, cioè "gli hai comandato di uscire, lasciare questo mondo", con una effettiva variazione di significato, è diventato ad te migrare iussisti, "di passare a Te".

Questo non potrebbe far pensare che l’uomo, alla fine della vita, vada sempre comunque direttamente a Dio, senza l’alternativa tra il castigo per i reprobi e il premio per i buoni? In tal caso l’espressione equivarebbe in sostanza al modo eufemistico di alludere alla morte, "ritorno al Padre" o "alla casa del Padre", diffuso negli anni del postconcilio dagli ambienti clericali, e contro cui Zolli, come si dirà, appuntò la sua critica.

L'abolizione della assoluzione

Un’altra fondamentale variazione ha riguardato una parte determinante del rito delle esequie, data dall’assoluzione al feretro, di cui è stato cambiato innanzi tutto il nome in Ultima commendatio et valedictio (ultima raccomandazione e commiato). Ciò ha comportato, come è ben evidente, anche la variazione di senso e di scopo, lo conferma apertamente del resto il n. 10 dei Praenotanda dell’Ordo exsequiarum riformato nel 1969 (vedilo in C. Johnson, Christian Burial, Roma, CLV Edizioni Liturgiche, 1993, pp. 25 s.). Vi si afferma che non si tratta di un rito di purificazione (leggi assoluzione), bensì solo dell’ultimo saluto della comunità al defunto (comma 1), quindi lo si esclude tassativamente in assenza del cadavere (comma 5), come invece si praticava tradizionalmente con l’assoluzione al tumulo, al drappo o alla lettiga per suffragare l’anima del defunto. Si dispone inoltre che il rito sia introdotto dalla monizione del sacerdote il quale ne spieghi il significato (comma 3): proprio questa singolare norma è indice del mutamento, essa avrebbe infatti ben poco senso, se non quello appunto di sostituire nella mente dei cristiani, attraverso tale prescritto costante indottrinamento, la nuova concezione a quella tradizionale, che essi possedevano pacificamente. Di conseguenza, per quanto concerne le formule, sono stati eliminati l’orazione Non intres, e soprattutto il celebre responsorio Libera me Domine con cui nel sentire popolare si identificava l’assoluzione, entrambi aventi a oggetto, al pari del Dies irae, il tremendo giudizio di Dio, il timore dei castighi, l’urgenza della misericordia e del perdono. Al loro posto i riformatori hanno collocato il responsorio Subvenite che si cantava, e si può cantare anche oggi all’ingresso del defunto in chiesa, o altro canto a scelta, ma tutti dal testo blando e tendenzialmente consolatorio (cfr. ivi, pp. 38 ss.).

È innegabile che tutto ciò, al pari di molte altre variazioni, è indice del fenomeno così icasticamente esposto da Romano Amerio: "Nella mentalità postconciliare e nella riforma liturgica l’idea della morte come giudizio e discrimen assoluto vien fatta indietreggiare e scomparire dietro quella della salvezza eterna: non più una comparsa, per dir così, giudiziale, ma una continuità immediata della vita terrena con la salvezza eterna. La morte viene spogliata del carattere ancipite e rappresentata come un evento che introduce tosto alla gloria del Cristo... i quattro novissimi sembrano ridotti a due: morte e paradiso" (R. Amerio, Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel XX secolo³, Milano-Napoli, Ricciardi, 1989, pp. 573 s.). Certo si desume una attitudine quanto meno diplomatica, di accomodamento, col tacere, dissimulare, non insistere su aspetti della fede cattolica che urtano direttamente le concezioni della moderna società mondana, la sua rimozione della morte vista come definitiva cessazione della vita, cui non pensare mai e da desiderare come eutanasia, morte incosciente (sul punto ancora ivi, pp. 568 ss.).

"Ritorno al Padre"

Paolo Zolli, a causa dell’intensità della fede da lui vissuta, reagì con estrema forza a questi cambiamenti, in quanto non concepiva che, in un momento così importante per l’uomo, la fede non venisse professata apertamente, ma taciuta per rispetto umano persino nella messa, nella sacra liturgia. A testimonianza di tali sentimenti, pubblichiamo il testo di una lettera inedita del 29 ottobre 1985, inviata da Zolli alla Congregazione per la dottrina della fede, e che si trova nel suo archivio [questa lettera era pubblicata per la prima volta in "Civitas Christiana", cit., p. 23]. La lettera segnalava un necrologio, sottoscritto dall’allora arcivescovo di Torino, card. Anastasio Ballestrero, dal presbiterio diocesano e dalla comunità parrocchiale, contenente la nota espressione "ritorno al Padre" riferita alla morte di un sacerdote. Zolli domandava, se essa "sia compatibile con la fede cattolica o non risponda invece a convinzioni pagane o ereticali", chiaramente in considerazione del fatto che sembra rimuovere i novissimi del giudizio e dell’inferno che quindi si potrebbe pensare essere vuoto. Non risulta che la congregazione abbia mai risposto sul punto, al contrario di quanto avvenuto in altri casi, in cui fece conoscere a Zolli il suo pensiero attraverso la Curia patriarcale veneziana.

Il diritto di dare disposizioni sui propri funerali

Se può valere la considerazione che la messa col nuovo rito, celebrata in latino, con l’altare verso Dio e le forme della tradizione ("una celebrazione della liturgia riformata in maniera classica, cioè con canto gregoriano, usando l’altare maggiore e paramenti classici", per dirla con le parole di un esponente della Commissione Ecclesia Dei, Prot. N. 109/92), non si allontana di molto da quella antica, essa vale sì per la messa della domenica, ma altro discorso deve farsi per la messa funebre e il rito delle esequie, che è comunque assai diverso sia nella forma sia nel contenuto, almeno - come si è visto - per l’omissione di rilevanti aspetti.

Paolo Zolli lasciò detto che i suoi funerali fossero celebrati secondo l’antico rito, altrimenti in forma civile, e affermò una volta, meglio un funerale civile che celebrato in certe chiese e da certi preti. Lo ebbe poi secondo la tradizione col permesso dell’autorità ecclesiastica, col Dies irae e il Libera me Domine, senza che nulla si passasse sotto silenzio della sua fede incrollabile nell’infinita giustizia e misericordia divina. Anch’io chiedo lo stesso che dispose Zolli, colgo l’occasione per esprimere qui pubblicamente la sua stessa volontà. Più volte è avvenuto e avviene purtroppo che preti non tengano nella dovuta considerazione le ultime disposizioni dei fedeli sulle esequie, che restano spesso inattuate, mentre il loro puntuale, scrupoloso rispetto dovrebbe essere dovere di umana e cristiana pietà verso il defunto da parte dei familiari, degli amici, dei pastori cui il corpo è affidato per l’ultima preghiera.

Il fatto di volere il proprio funerale con la messa in latino e secondo il rito romano antico è certamente una giusta aspirazione dei cristiani legati a quella tradizione liturgica che papa Giovanni Paolo II ha disposto sia rispettata col Motu proprio Ecclesia Dei. Chi dunque ha questo legittimo desiderio ha tutto il diritto di disporlo formalmente, di renderlo noto, di adoperarsi affinché a suo tempo sia correttamente attuato da persone di sua fiducia. È anche un merito, una testimonianza di fede autentica e di civiltà.

 

da "Civitas Christiana" (Verona) n° 22-26, 1999-2000, pp. 18-21

 

 

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