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Note sopra la Liturgia
di Cristina Campo
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Negli Apophtegmata Patrum è detto come
il demonio sia incapace di conoscere i nostri pensieri
perché di un'altra natura dalla nostra, ma come egli
possa indovinarli osservando i movimenti del nostro corpo.
Di quella spia egli profitta per tenderci i suoi tranelli:
donde l'importanza data in ogni tempo al comportamento
esteriore e la spontanea venerazione per chi l'abbia
perfetto. Costui, oltre a creare intorno a se stesso un
anello di purezza inviolabile, sta in certo modo
compiendo un esorcismo a beneficio di quanti gli sono
prossimi. "Beato" dice san Francesco "quell'uomo
che non vuole nei suoi costumi e nel suo parlare esser
veduto né conosciuto se non è in quella pura
composizione e in quello adornamento semplice del quale
Iddio lo adornò e compose".
È comprensibile che un maestro spirituale
insistesse presso i suoi discepoli sulla liturgia
solitaria, atteggiamento del corpo durante l'orazione
anche soltanto mentale, consigliasse di pregare in piedi.
compiendo tutti i gesti prescritti, come in coro, "come
se i fratelli assenti fossero presenti". E che un'e-
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ducatrice
di genio, Hélène Lubienska de Lanval, imponga prima di
tutto ai bambini la recitazione di pochi versetti biblici
accompagnata da taluni gesti e cerimoniali significativi:
preparando il calco esteriore alla colata del contenuto
che verrà più tardi: intellettuale prima, spirituale
poi. Si sa di molte conversioni dovute alla predicazione,
ma la scintilla può scoccare da un solo, perfetto gesto
liturgico; c'è chi s'è convertito vedendo due monaci
inchinarsi insieme profondamente, prima all'altare poi l'uno
all'altro, indi ritrarsi nei penetrali del coro.
In un mondo nel quale l'uomo lentamente muore
per mancanza non già di riverenza, come i filantropi
vorrebbero indicarci, ma perché non sa più chi, non sa
più che cosa riverire, un gesto simile può mutare una
vita. E non appare strano, avendolo visto, che a santa
Gertrude il Cristo sia apparso per la prima volta "nell'ora
dolcissima di Compieta", mentre ella si rialzava da
un inchino profondo col quale aveva riverito una monaca
più anziana. Al posto di quella vide il "delicato
giovinetto", "tale nell'aspetto quale allora la
mia giovinezza sarebbe stata lieta di vedere anche con
gli occhi del corpo". Con l'ultimo inchino sparirà
forse da questa terra l'ultima vicenda degna di
venerazione.
La liturgia è dunque il santo esorcismo. Santo
e per così dire naturale. I gesti sacri lo sono anche in
senso biologico, perché da tradizioni millenarie legati
a numeri ai quali la vita dell'uomo arcanamente risponde:
il tre, il sette, il dieci e così via. Uno studioso,
Sambucy, ha notato come nella Messa siano contenuti gli
atteggiamenti rituali più puri della contemplazione yoga,
per esempio al Canone, allorché il sacerdote prega a
braccia aperte e sollevate geometricamente, unendo i
pollici agli indici; ma da noi si tende,
incomprensibilmente, a trovare arbitrario, gratuito e
sostituibile lo splendore di consimili gesti o la
meravigliosa complicazione di
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certe regole cerimoniali:
come quella, tutta ruotante intorno al numero tre e al
mistico rapporto tra il cerchio e le rette (in modum
circuli, in modum crucis), che informa, nella
Messa solenne, la incensazione delle oblate. L'uomo così
impegnato in gesti significativi adempie all'opus Dei
non soltanto in senso sacro ma anche in senso naturale,
affidando il respiro al ritmo infallibile del canto (che,
con le lunghezze armoniosamente diseguali dei versetti,
dilata e varia il giuoco del soffio nei polmoni) e
lasciando che tutto il corpo ritrovi, in quella stretta e
trascendentale disciplina, le sue leggi e i suoi numeri
segreti. Lode davvero trinitaria, nella quale il corpo è
fatto sentimento, il cuore pensiero e l'intelletto
contemplazione.
Oggi si direbbe che quell'insano terrore che
induce l'uomo ad aggredire la natura nel momento stesso
che la fugge, lo spinga ad interrompere anche il grande
esorcismo spirituale del gesto, introducendovi sempre
più ciecamente cunei di vita profana: voci scomposte,
ordini, illuminazioni inopportune, oggetti non rituali e,
mostruosamente, il microfono, che rende grottesca la voce
umana, assurde le tragiche vesti, anacronistico il gesto
cerimoniale: giacché sarà sempre il nobile a pagare per
il predone.
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Liturgia è celebrazione dei divini misteri. È
anche la grande esoterica del cattolico, che solo dopo
una lunga frequentazione della liturgia terrena sarà in
grado di presagire qualcosa della liturgia celeste. È,
infine, desiderio di glorificare la divinità
ricomponendo sulla terra, come stampate da un'ombra, le
meraviglie del cielo: il giro degli astri, il succedersi
delle stagioni, il mistero del tempo, l'itinerario della
mente a Dio. Assistendo a una celebrazione liturgica
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solenne o anche soltanto a un Vespro bene ufficiato (è
chiaro che parliamo e abbiamo parlato finora della
tradizionale liturgia latino-gregoriana), si avrà l'impressione
immediata di un moto astrale, di un'orbita celeste. E
subito il Breviario lo conferma: piccolo libro zodiacale
e cosmologico, currens per anni circulum, dove
ciascuna ora canonica celebra una fase della luce, come
negli Inni delle Piccole Ore, un momento della creazione
del mondo, come negli Inni dei Vespri, o il graduale
passaggio dalla notte al giorno, dal peccato all'illuminazione,
come negli Inni dei Mattutini. Fin nelle ultime sfumature
la varietà dei toni, le diverse cadenze musicali di uno
stesso inno, salmo o responsorio a seconda del tempo
liturgico, della solennità o della stagione (tonus
vernalis, tonus hiemalis) - l' "immensa
e delicata" liturgia mostra di ben portare il nome
che le diede san Benedetto, opus Dei, giacché l'uomo
non vi ha ruolo che di interprete delle grandezze di Dio
e del creato. I suoi movimenti vi uniscono la lentezza
maestosa delle ore con la levità della danza, mentre i
paramenti, variando il loro colore, fissano all'occhio
significati di morte, di risurrezione primaverile, di
purgazione, di purpurea raccolta. Intorno all'immobile
Sole - Cristo - Cristo stesso, nella persona del
sacerdote, volge la Sua divina vicenda, e in essa
coinvolge l'anno come il giorno, l'uomo in adorazione
come lo stuolo dei Santi e delle Gerarchie Angeliche.
Liturgia è dunque desiderio di circondare la divinità
di immagini quanto possibile ad essa somiglianti, oltre
che di parole da essa ricevute. Di restituire al Creatore,
in virtù della Sua ispirazione, un estatico specchio
della creazione. Gratias agimus Tibi propter magnam
gloriam Tuam.
In un tempo nel quale l'uomo, preda di forze
oscure, si industria di far esplodere la vita,
stravolgendone tutte le leggi e rinunciando alla sua
ultima destinazione, è particolarmente affliggente per
lo spirito che anche nel meraviglioso santuario della
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liturgia tradizionale si aprano brecce, che anche questo
sistema vacilli.
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Liturgia - come poesia - è splendore gratuito,
spreco delicato, più necessario dell'utile. Essa è
regolata da armoniose forme e ritmi che, ispirati alla
creazione, la superano nell'estasi. In realtà la poesia
si è sempre posta come segno ideale la liturgia ed
appare inevitabile che, declinando la poesia da visione a
cronaca, anche la liturgia abbia a soffrirne offesa.
Sempre il sacro sofferse della degradazione del profano.
La liturgia cristiana ha forse la sua radice nel
vaso di nardo prezioso che Maria Maddalena versò sul
capo e sui piedi del Redentore nella casa di Simone il
Lebbroso, la sera precedente alla Cena. Sembra che il
Maestro si innamorasse di quello spreco incantevole. Non
soltanto lo oppose alteramente alla torva filantropia di
Giuda che, molto tipicamente, ne reclamava il prezzo per
i poveri: "Avrete sempre i poveri, ma non avrete
sempre me" - parola terribile che mette in guardia l'uomo
contro il pericolo delle distrazioni onorevoli: Dio non c'è
sempre e non rimane a lungo e quando c'è non tollera
altro pensiero, altra sollecitudine che Se stesso - ma
addirittura replicò quel gesto la sera dopo, quando,
precinto e inginocchiato, lavò con le Sue mani divine i
piedi dei dodici Apostoli, allo stesso modo che Maddalena,
scivolando tra il giaciglio e il muro, aveva lavato i
Suoi. Dio, come osservò uno spirito contemplativo, si
ispira volentieri a coloro che ispira.
"E l'odore si sparse per l'intera dimora".
Il nardo di Maria Maddalena profuma l'intera liturgia
cristiana, più ancora del nardo soave della Sulamita,
del quale tanto si parla nelle Ore di Nostra Signora,
tutte intrise di aromi e di fiori. Al nardo viene giusta
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mente comparato l'incenso, che ha il potere di disperdere
l'angoscia del respiro e si leva al cospetto di Dio de
manu Angeli. L'incenso è inesprimibilmente
misterioso. Esso è insieme preghiera e qualcosa di più
fine, più acuto della preghiera. Compone l'aroma dell'eros
con quello della rinuncia, è resa di grazie ed è, come
il nardo, alcunché di soavemente ferale. "Ella mi
prepara per la mia sepoltura" disse il Salvatore con
quell'accento che nessuno, intorno a Lui, penetrava.
Nemmeno Maddalena comprese, naturalmente. Ma quando, tre
giorni dopo, venne al Sepolcro con altri balsami, in
cerca del corpo venerato, esso non era più là. Come
sempre non l'utile aveva servito alla vera celebrazione
ma il superfluo: non l'azione ma la liturgia dell'azione.
La vera imbalsamazione del Corpo del Signore era già
avvenuta al banchetto, e insieme anche la sola unzione
regale e sacerdotale che Egli mai ricevesse su questa
terra. E più ancora: un principio di sacramento,
giacché il corpo ch'ella così preparava era già l'
"ostia pura, ostia santa, ostia immacolata"
pronta all'offerta; e il suo bisogno di toccarlo,
intriderlo di profumi e di lacrime, tergerlo con ciocche
di capelli, fondersi in qualche modo con esso, qualcosa
di molto simile a una comunione. Inesauribile è il gesto
di Maddalena, e in realtà Cristo affermò che per sempre
ci si sarebbe ricordati di esso. Ciò che lo rende
inesauribile è appunto la sua gratuità: tutti i poveri
della terra non potrebbero pretendere a una dramma sola
di quel nardo, come tutti i poveri della terra non
potrebbero pretendere a un solo grano d'incenso bruciato
al cospetto di Dio con cuore ardente. Nel Mattutino del
Grande Sabato del rito bizantino si cantano, rivolte a
Giuda, queste parole:
"Se sei l'amico
dei poveri e ti rattristi dell'effusione di un balsamo
per la consolazione di un'anima, come hai potuto vendere
la luce a prezzo d'oro?".
La complessità del
gesto di Maddalena ne fa, come abbiamo detto, qualcosa
che da liturgico diviene
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in qualche modo sacramentale. Ma
si potrebbe ricordare, prima ancora del suo gesto, quello
non meno ineffabile, se anche più semplice, dei
saggissimi Magi. I quali, partiti alla ricerca di un
fanciullo bisognoso di tutto, non gli recarono latte né
panni ma le insegne della Sua triplice dignità di
Profeta, di Sacerdote e di Re. Così mostrando che
neppure Dio stesso, quando si mostri a noi perfettamente
povero, ci dispensa dalla celebrazione simbolica della
Sua gloria, quale è rappresentata dalla liturgia; e che
questa, pur nel suo incessante attuarsi, rimane per
eccellenza un'operazione contemplativa. Di una
delicatezza e di una gravita che rendono, più che
rischiosa, mortale ogni arbitraria modificazione.
da [Bernardo Trevisano] «Cappella
Sistina», luglio-settembre 1966, pp. 99-102.
Ripubblicato in C.
CAMPO, Sotto falso nome, a cura di M. FARNETTI,
II ed., Milano, Adelphi, 1998, pp. 129-135.
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