La riforma della Settimana Santa
negli anni 1951-1956
Tra liturgia e teologia attraverso le
dichiarazioni di alcuni dei suoi principali redattori
(Annibale Bugnini, Carlo Braga, Ferdinando Antonelli)
di
Stefano Carusi
Introduzione |
Domenica delle Palme |
Lunedì Santo |
Martedì Santo
| Mercoledì Santo
|
Giovedì Santo
| Venerdì Santo
| Sabato Santo
| Conclusione
"Si è sentita l'esigenza che le
formule del Messale Romano fossero rivedute e arricchite.
Primo passo di
tale riforma è stata l'opera del Nostro Predecessore Pio XII con la
riforma
della Veglia Pasquale e del Rito della Settimana Santa
[1], che costituì il primo passο
dell'adattamento del Messale Romano alla mentalità contemporanea"
Paolo VI, Costituzione Apostolica
Missale Romanum, 3 aprile 1969
Introduzione
Nel corso degli ultimi anni la pubblicazione di
numerosi studi relativi alla storia del dibattito teologico-liturgico
degli anni cinquanta ha gettato nuova luce sulla formazione e sulle
intenzioni, non sempre all'epoca apertamente dichiarate, di coloro che
furono i redattori materiali di alcuni testi.
Per quanto concerne l'opera di riforma della Settimana Santa del
1955-56, in questa sede ci si vorrebbe soffermare sulle dichiarazioni,
oggi finalmente pubbliche, del noto lazzarista Annibale Bugnini, del suo
stretto collaboratore e quindi segretario del "Consilium ad reformandam
liturgiam", Padre Carlo Braga e del futuro Cardinale Ferdinando
Antonelli, per stabilire se la loro opera di riforma liturgica
rispondesse o meno ad un più vasto disegno teologico e per analizzare la
validità o meno dei criteri utilizzati e poi riproposti nelle successive
riforme. Verranno prese in considerazione anche le annotazioni e le
relazioni delle discussioni della commissione preparatrice, conservate
principalmente nell'archivio della Congregazione dei Riti, le quali,
recentemente pubblicate nei monumentali lavori di ricerca dello storico
della liturgia Mons. Nicola Giampietro, testimoniano del tenore del
dibattito.
Nell'ottobre 1949, presso la Congregazione dei Riti, veniva nominata una
commissione liturgica che avrebbe dovuto occuparsi del rito romano e di
eventuali riforme da studiare e se necessario applicare; purtroppo la
calma necessaria ad un tale lavoro non era possibile a causa delle
continue sollecitazioni dell'episcopato di Francia e Germania che
reclamava, nella più grande e pretestuosa precipitazione, cambiamenti
repentini. La Congregazione dei Riti e la Commissione si erano viste
obbligate ad occuparsi della questione degli orari della Settimana
Santa, per bloccare le fantasie di certe "celebrazioni autonome", specie
relativamente alla veglia del Sabato Santo. In questo contesto si
dovette approvare "ad experimentum" un documento che permettesse la
celebrazione serale del rito del Sabato Santo, si trattava dell' "Ordo Sabbati Sancti" del 9 gennaio 1951
[2].
Negli anni 1948-1949, la commissione era stata eretta sotto la
presidenza del Cardinal Prefetto Clemente Micara, sostituito nel 1953
dal Card. Gaetano Cicognani, vedeva anche la presenza di Mons. Alfonso
Carinci, dei Padri Giuseppe Löw, Alfonso Albareda, Agostino Bea,
Annibale Bugnini, nel 1951 giunse mons. Enrico Dante, nel 1960 mons.
Pietro Frutaz, don Luigi Rovigatti, mons. Cesario d'Amato ed infine
Padre Carlo Braga
[3];
quest'ultimo, da tempo era stretto collaboratore di Annibale Bugnini,
nel corso del 1955-56, pur non essendo ancora membro della Commissione,
fu partecipe dei lavori
[4]
e fu inoltre autore, insieme al citato Padre Bugnini, di testi
storico-critici e pastorali sulla Settimana Santa
[5],
i quali dovevano rivelarsi una sorta di salvacondotto "scientifico"
delle modifiche apportate.
La Commissione lavorava in segreto ed agiva sotto la pressione degli
episcopati centro-europei
[6],
non è chiaro se per arginarli o per assecondarli; tanto era il segreto
che l'improvvisa e inattesa pubblicazione dell' "Ordo Sabbati Sancti
instaurati", ai primi di marzo del 1951, "colse di sorpresa gli stessi
officiali della Congregazione dei Riti"
[7],
come riferisce il membro della Commissione Annibale Bugnini.
È lo
stesso Padre Bugnini a metterci al corrente del modo singolare col quale
i risultati dei lavori della Commissione sulla Settimana Santa erano
riferiti al Papa: quest'ultimo era "tenuto al corrente da Mons. Montini,
e, più ancora, settimanalmente, dal P. Bea, confessore di Pio XII.
Grazie a questo tramite si poté giungere a risultati notevoli, anche nei
periodi nei quali la malattia del Papa impediva a chiunque di
avvicinarlo"
[8].
Il Papa era afflitto da una grave malattia allo stomaco che lo obbligava
ad una lunga convalescenza, non era quindi il Cardinale Prefetto dei
Riti, responsabile della commissione, ad informarlo, ma l'allora Mons.
Montini e il futuro Card. Bea, che tanta parte ebbe nelle riforme
posteriori.
I lavori della commissione si protrassero fino al 1955, quando il 16
novembre fu pubblicato il decreto "Maxima redemptionis nostrae mysteria",
che doveva entrare in vigore per la Pasqua dell'anno successivo.
L'episcopato accolse in maniera diversa le novità e, aldilà del
trionfalismo di facciata, non mancarono le lamentele per le novità
introdotte e persino si moltiplicarono le richieste di poter conservare
il rito tradizionale
[9],
ma ormai la macchina della riforma liturgica era stata messa in moto ed
arrestarne il corso si sarebbe rivelato impossibile e soprattutto
inconfessabile, come la storia successiva dimostrerà.
Malgrado si volesse che il coro dei liturgisti cantasse all'unisono,
complice anche l'attitudine monocorde che, negli anni cinquanta,
ostentava un certo unitarismo d'intenti, si levarono autorevoli voci di
dissenso, prontamente costrette al silenzio malgrado la loro competenza.
Fu il caso non solo di alcuni episcopati, ma anche di alcuni liturgisti
come Léon Gromier, il quale, noto anche per la sua documentata opera di
commento del Cerimoniale Episcoporum
[10],
era consultore della Congregazione dei Riti e membro dell'Accademia
Pontificia di Liturgia; questi, nel luglio 1960 a Parigi, si espresse
con stile acceso, ma con solidità d'argomentazioni, in una nota
conferenza
[11].
Lo stesso Papa Giovanni XXIII, nel 1959, nella sua celebrazione del
Venerdì Santo a Santa Croce in Gerusalemme celebrò seguendo le pratiche
tradizionali
[12],
dando prova di non condividere le incongruenze da poco introdotte e
prendendo atto della natura sperimentale di quei cambiamenti.
Alcune riforme introdotte sperimentalmente nel 1955-56, si rivelarono
inserite in maniera incongrua nel tessuto rituale, tanto che esse furono
leggermente corrette dalla riforma liturgica del 1969, l'argomento
meriterebbe uno studio a parte.
Per accennare all'importanza della riforma della Settimana Santa tanto a
livello liturgico che storico, si dà menzione del commento di due dei
più grandi protagonisti di quest'evento, alfine di inquadrare le
intenzioni di coloro che lavorarono a quest'opera. Padre Carlo Braga,
braccio destro di Annibale Bugnini e per anni alla direzione
dell'autorevole rivista "Ephemerides Liturgicae", definisce audacemente
la riforma del Sabato Santo: "testa d'ariete che è penetrata nella
fortezza della nostra liturgia ormai statica"
[13].
Il futuro Card. Ferdinando Antonelli ebbe a definirla nel 1956: "l'atto
più importante nella storia della liturgia da S. Pio V ad oggi"
[14].
Le innovazioni esaminate nel dettaglio
Si viene ora ad un'analisi dettagliata che ponga in rilievo alcuni dei
più vistosi cambiamenti apportati dall' "Ordo Hebdomadae Sanctae
Instauratus" del 1955-56 e che spieghi perché tale riforma divenne "la
testa d'ariete" nel cuore della liturgia romana, costituendo "l'atto più
importante a partire da S. Pio V ad oggi".
Relativamente ad ognuna delle innovazioni citate si farà seguire un
commento, basandosi per quanto possibile su quanto gli autori materiali
dei testi hanno in seguito dichiarato, seguirà inoltre un breve cenno
alla pratica tradizionale.
Domenica delle Palme
Si legge negli archivi della
commissione: "una cosa però forse si potrebbe fare (...) si potrebbe
restituire il colore rosso primitivo usato durante il medioevo per
questa solenne processione. Il colore rosso ricorda la porpora regale" -
e poco più avanti - "in questo modo la processione si distinguerebbe
senz'altro come elemento sui generis"
[16].
Non si vuole negare in questa sede che il colore rosso possa essere
segno della porpora regale, benché resti da provare l'asserito uso
medievale, ma è comunque singolare il modo di procedere, per cui si
cercano scelte "sui generis" (sic) e si decide che il rosso debba avere
in questa giornata una simbologia positivamente determinata, allorquando
il rosso nel rito romano è il colore dei martiri o dello Spirito Santo e
nel rito ambrosiano è utilizzato in questa domenica per indicare il
sangue della Passione e non la regalità, nel rito parigino si usava il
colore nero per ambo i riti. In alcuna diocesi era previsto, un colore
per la processione ed un altro per la Messa, una pratica forse mutuata
dalla Festa della Purificazione della Vergine
[17],
e che non ha molto senso applicare al contesto della Domenica delle
Palme, come riferisce Léon Gromier. Questa innovazione sarebbe da
attribuirsi non già ad una prassi attestata, ma all'idea estemporanea di
un "pastorale professore di seminario svizzero"
[18].
Nel Messale Romano del 1952 [d'ora in
poi MR 1952]: Uso costante del viola tanto per la processione che per
la Messa
[19].
Si trattava di un resto della più
alta antichità che era sopravvissuto fino ad allora e che dimostrava
tanto dell'arcaicità della Settimana Santa, che mai si era osato
alterare per la venerazione che ad essa si portava, quanto della
straordinarietà di questi riti e del dolore straordinario della Chiesa
in questi giorni.
(MR 1952): Uso delle pianete plicate
e dello stolone, o della pianeta arrotolata, per il canto del Vangelo da
parte del Diacono
[21].
Per la partecipazione dei fedeli
si introduce l'idea della azioni liturgiche verso il popolo e spalle a
Dio: "influisce (nella riforma nda) anche la visibilità di particolari
gesti della celebrazione, staccati dall'altare e compiuti da ministri
sacri rivolti al popolo"
[23].
Si inventa una benedizione fatta su un tavolo, che sta tra l'altare e la
balaustra, con i ministri rivolti al popolo, si introduce un nuovo
concetto dello spazio liturgico e dell'orientamento della preghiera.
(MR 1952): I rami si benedicono
all'altare, in cornu epistolae, dopo una lettura, un graduale, un
Vangelo e soprattutto un Prefazio con un Sanctus che introducono le
orazioni di benedizione. Si tratta dell'antichissimo rito della
cosiddetta "Missa sicca"
[24].
Stupisce constatare che si voglia
solennizzare la regalità di Cristo
[26],
proprio sopprimendo il prefazio con le parole che tale regalità
descrivono. Esso è definito senza mezzi termini superfluo quindi lo si
elimina: "considerando la poca coerenza di questi prefazi, la loro
prolissità, e, per alcune formule, la loro povertà di pensiero, la
perdita non si presenta rilevante"
[27].
(MR 1952): Il rito romano prevede
spesso, in occasione di grandi momenti liturgici come ad esempio la
consacrazione degli oli o le ordinazioni sacerdotali, il canto di un
prefazio, che è un modo particolarmente solenne di rivolgersi a Dio;
così anche per la benedizione delle palme era previsto un prefazio che
descriveva l'ordine divino della Creazione e la sua sottomissione a Dio
Padre, sottomissione del creato che è monito per i re e i governanti
della sottomissione che devono avere a Cristo: "Tibi enim serviunt
creaturae tuae: quia te solum auctorem et Deum cognoscunt et omnis
factura tua te collaudat, et benedicunt te sancti tui. Quia illud magnum
Unigeniti tui nomen coram regibus et potestatibus huius saeculi libera
voce confitentur"
[28].
Il testo del canto rivela in poche eleganti righe la base teologica che
è fondamento del dovere della sottomissione dei governi temporali a
Cristo Re.
La ragione è, recita la nota degli
archivi, che queste orazioni sono "ampollose (…) con tutto lo sfoggio di
quell'erudizione tipica dell'epoca carolingia"
[30],
i riformatori convengono sull'antichità dei testi ma non le ritengono di
loro gusto perché "è molto debole la relazione diretta della cerimonia
con la vita cristiana vissuta, ossia il significato liturgico pastorale
della processione come omaggio a Cristo Re"
[31].
Sfugge a chiunque quale sia il mancato legame tra la "vita vissuta" dei
fedeli e l'omaggio a Cristo Re nel suo pieno "significato liturgico
pastorale". Decisamente il piano è quello di una retorica che appare
oggi alquanto datata, ma che all'epoca aveva una certa presa. Pur di
favorire una "partecipazione consapevole alla processione; con
l'applicazione alla vita cristiana concreta e vissuta"
[32],
si forniscono argomentazioni che non sono né teologiche né liturgiche.
La "vita cristiana concreta e vissuta" dei fedeli è poi indirettamente
disprezzata a distanza di pochissime righe: "queste pie usanze (delle
palme benedette nda), pur giustificate teologicamente, possono
degenerare (come di fatto sono degenerate) in superstizione"
[33].
Messo da parte il tono da razionalismo malcelato, si noti che le antiche
orazioni sono deliberatamente sostituite con nuove formule che, secondo
le parole degli autori, sono "in sostanza di fattura nuova"
[34];
le antiche orazioni non piacciono perché esprimono troppo l'efficacia
dei sacramentali e si decide di inventarne di nuove.
(MR 1952): Le antiche orazioni
ricordano il ruolo dei sacramentali, i quali hanno un effettivo potere
("ex opere operantis Ecclesiae") contro il demonio
[35].
-
(OHS 1956): Invenzione di una croce da
processione non velata
[36],
allorquando la croce d'altare è rimasta velata.
Confessiamo che il significato
liturgico di questa innovazione ci sfugge completamente; la modifica più
che relativa a una simbologia mistica appare piuttosto un "pastiche"
liturgico frutto della fretta dei redattori.
(MR 1952): La croce d'altare è velata
così come la croce processionale, alla quale si lega un ramo benedetto
[37],
ancora un riferimento in questo giorno alla croce gloriosa e alla
Passione vincitrice.
Il rito simboleggiava la
resistenza iniziale del popolo giudeo e l'ingresso trionfale di Cristo
in Gerusalemme, ma anche la croce trionfale di Cristo che spalanca le
porte del cielo, che è causa della nostra Resurrezione, "hebraeorum
pueri resurrectionem vitae pronuntiantes"
[39].
(MR 1952): La processione rientrava
davanti alla porta della chiesa chiusa. Un dialogo cantato da un coro di
cantori all'esterno, alternato con un altro coro all'interno della
chiesa, precedeva l'apertura della porta della chiesa, che avveniva dopo
aver bussato colla parte bassa della croce astile
[40].
Nessuno sa determinare ove debba
essere il messale o chi debba sorreggerlo sul gradino, poiché nella
fretta di riformare non ci si rese conto della stravaganza, la quale
obbligò ad un rubrica aggiuntiva, la "22 a" o "22 bis", che è più
confusa della precedente
[42].
L'inserzione risulta "appiccicata" ai riti precedenti in ragione della
sua natura arbitraria: "a questo punto, cioè per dare alla processione
un preciso elemento di termine abbiamo pensato di proporre un
particolare Oremus"
[43].
Lo stesso Padre Braga, cinquant'anni dopo confessa candidamente che
l'invenzione di quest'orazione non fu scelta felice: "l'elemento che
stona un po' nel nuovo Ordo è l'orazione conclusiva della processione,
che rompe l'unità della celebrazione"
[44].
Le alterazioni "sperimentali", nella loro volontà innovatrice, rivelano
col tempo la loro inadeguatezza.
(MR 1952): La processione terminava
normalmente e poi iniziava la Messa, con le preghiere ai piedi
dell'altare come di consueto.
La Passione aveva sempre avuto uno
stile narrativo, cantata da tre voci essa era seguita dal Vangelo, dal
quale si distingueva perché esso era cantato dal solo diacono su un tono
differente e con l'uso dell'incenso ma senza i luminari. La riforma
confonde i due aspetti, Passione e Vangelo sono amalgamati in un unico
canto senza risparmiare vistosi tagli all'inizio e alla fine, si finisce
quindi per privare la Messa e il diacono del canto del Vangelo, il
quale, in quanto tale, risulta formalmente soppresso.
(MR 1952): Il canto del "Passio" è
distinto dal canto del Vangelo, che arrivava fino a Mt XXVII, 66
[46].
Siamo qui all'attitudine che
stimiamo più sconcertante, soprattutto perché dallo spoglio d'archivio
sembra che la Commissione avesse deciso di non cambiare nulla riguardo
la lettura del Passio, perché di antichissima istituzione
[48].
Tuttavia, non sappiamo come né perché, la narrazione dell'Ultima Cena è
espunta. Resta difficile pensare che si possano cancellare per soli
motivi di tempo trenta versetti, soprattutto in considerazione della
rilevanza del passaggio. Fino ad allora la tradizione aveva voluto che
la narrazione della Passione dei Sinottici, avesse sempre incluso
l'istituzione dell'eucaristia che, con la separazione sacramentale del
Corpo e del Sangue di Cristo, è l'annuncio della Passione. La riforma
occulta, con un colpo di spugna su un passaggio fondamentale della Sacra
Scrittura, il legame di consequenzialità tra Ultima Cena, sacrificio del
Venerdì Santo e Eucaristia. Il passaggio dell'istituzione
dell'eucaristia sarà espunto anche il Martedì Santo e il Mercoledì
Santo, con lo straordinario risultato che esso risulterà assente
dall'intero ciclo liturgico! È la conseguenza di un cambiamento
frettoloso che va a scardinare un'opera plurisecolare, senza nemmeno
essere capace di una visione d'insieme delle Scritture lette nell'anno.
(MR 1952): La Passione era preceduta
dalla lettura dell'istituzione dell'eucaristia scorgendo l'intimo,
essenziale, teologico legame fra i due passaggi
[49].
Lunedì Santo
Si assiste all'eliminazione di
tutti i riferimenti al fatto che la Chiesa abbia dei nemici. È la "ratio" dei riformatori che vogliono occultare con eufemismi o con
sparizioni di interi passaggi la realtà della persecuzione della Chiesa
da parte delle forze tanto terrestri quanto infernali, le quali lottano
contro il Corpo Mistico di Cristo, tanto con la violenza che con
l'insinuazione delle eresie (così si leggeva nell'orazione soppressa).
La stessa attitudine irenista si riscontrerà il Venerdì Santo,
candidamente confessata da Padre Carlo Braga
[51].
Nello stesso contesto si decreta la contemporanea proibizione
dell'orazione per il Papa, inizia così la prassi di ridurre la presenza
del nome del Romano Pontefice nella liturgia.
(MR 1952): Si recita l'orazione
contro i persecutori della Chiesa e quella per il Papa
[52].
Martedì Santo
Si tratta della seconda
sconcertante eliminazione del passaggio evangelico dell'istituzione
dell'eucaristia messa in rapporto con il sacrificio della Passione. La
riduzione di appena trenta versetti non sembra poter essere determinata
solo da motivi di tempo, vista, ancora una volta, l'importanza dei
passi.
(MR 1952) : Il passaggio Mc XIV, 1-31
relativo all'Ultima Cena e all'Istituzione, costituisce l'inizio della
lettura della Passione
[54].
Mercoledì Santo
Si tratta della terza
impressionante eliminazione del passaggio evangelico dell'istituzione
dell'eucaristia, nel suo naturale legame col sacrificio della Croce. In
questo caso, come nei precedenti, resta difficile credere che, per soli
motivi di tempo, si siano eliminati i trenta importanti versetti.
Ne consegue, difficile dire se volutamente o meno, anche l'eliminazione
del passaggio cosiddetto "delle due spade", passaggio poco amato dalle
correnti teologiche d'avanguardia.
(MR 1952): La narrazione della
Passione è preceduta dall'istituzione dell'eucaristia con cui è
naturalmente messa in rapporto
[56].
Giovedì Santo
Inizia la costruzione del mito
della concelebrazione del Giovedì Santo. I riformatori più audaci
volevano introdurla a partire da questa riforma ma le resistenze,
verosimilmente di membri come il Card. Cicognani e Mons. Dante,
impedirono questa novità. Padre Braga scrive: "per la partecipazione dei
presbiteri, non sembrò realizzabile la concelebrazione sacramentale (la
mentalità, anche di alcuni membri influenti della Commissione non era
ancora preparata)"
[58].
In effetti vi era ancora un sentimento fortemente ostile alla
concelebrazione del Giovedì Santo poiché non tradizionale, "la
concelebrazione tanto consacratoria che puramente cerimoniale è da
escludersi"
[59].
Per introdurre l'idea di concelebrazione ci si dovette accontentare di
inventare la pratica di mettere la stola ad ogni prete presente
[60],
non più soltanto al momento della comunione, ma a partire dall'inizio
della Messa.
(MR 1952): I sacerdoti e i diaconi
presenti indossano l'abito corale normale, senza la stola, che indossano
solo al momento della comunione, come avveniva usualmente
[61].
Non si capisce per quale ragione i
presenti non possano comunicare alle ostie già consacrate in precedenza.
La pratica romana del "Fermentum" - questa sì storicamente provata
- era
generalmente di comunicare con una parte dell'eucaristia della domenica
precedente, ad indicare la comunione della Chiesa nel tempo e nello
spazio, intorno alla realtà del Corpo di Cristo. Questa presenza essendo
"reale e sostanziale" continua quando l'assemblea si scioglie, allo
stesso titolo può ragionevolmente precedere la riunione dell'assemblea.
Con questa rubrica si introduce un'idea di presenza reale legata al
giorno della celebrazione e un obbligo a comunicare con le particole
consacrate nello stesso giorno. Quasi a dire che quelle particole
eucaristiche siano in qualcosa differenti da quelle consacrate
precedentemente. Si fa notare che l'obbligo non è solo relativo alla
simbologia del tabernacolo vuoto prima della Messa del Giovedì Santo, la
qual cosa al limite avrebbe potuto avere un qualsivoglia significato,
benché nuovo, ma il testo afferma che i comunicandi devono ricevere solo
particole consacrate in questo giorno
[63].
La teologia che sottende non pare delle più solide mentre la simbologia
inventata è discutibile.
(MR 1952): Non vi è alcuna menzione
di questa pratica di una comunione ad ostie consacrate il Giovedì Santo
[64].
La riforma si appellava al
ripristino della "veritas horarum"
[66],
argomento usato a proposito e a sproposito, come vero e proprio cavallo
di battaglia. In questo caso invece si stravolge la successione
cronologica del Vangelo. Fiumi d'inchiostro erano corsi per convincere
dello scandalo di orari che non fossero in piena corrispondenza con
quelli evangelici, ma in questo caso non solo si anticipa o posticipa un
rito per esigenze pratiche, ma si inverte l'ordine cronologico degli
avvenimenti evangelici all'interno dello stesso rito. S. Giovanni aveva
scritto che Nostro Signore aveva lavato i piedi agli Apostoli dopo la
cena: "et cena facta"(XIII, 2). Non si capisce per quale arcano motivo i
riformatori scelgano, arbitrariamente, di collocare in piena Messa la
lavanda dei piedi. Nel mezzo della Messa alcuni laici possono quindi
accedere in coro e levare scarpe e calzini. Appare una volontà di
ripensare la sacralità dello spazio presbiterale e la sua interdizione
ai laici durante gli offici. Il lavaggio dei piedi viene quindi spostato
all'offertorio, abusando della pratica di spezzare la celebrazione della
Messa con altri riti, pratica che si fonda sulla discutibile divisione
tra liturgia della parola e liturgia eucaristica.
(MR 1952): Il rito del "mandatum",
altrimenti detto della lavanda dei piedi, si faceva dopo la Messa e non
in presbiterio, dopo aver spogliato gli altari, senza spezzare la Messa,
senza far accedere dei laici nel coro durante gli offici e rispettando
la successione cronologica descritta dal Vangelo
[67].
Si elimina il terzo odiato
"Confiteor", non tenendo conto del fatto che la confessione del diacono
o dell'inserviente, benché mutuata dal rito della comunione extra missam,
è la confessione dell'indegnità dei comunicandi di ricevere le sacre
specie. Essa non è un "doppione" della confessione del sacerdote e dei
ministri all'inizio della Messa, poiché in quel momento, essi hanno
recitato semplicemente la propria indegnità di accostarsi all'altare per
officiare i sacri misteri (per questo motivo alla Messa cantata è
recitata sottovoce), la qual cosa è distinta dall'indegnità di accedere
alla comunione.
(MR 1952): Si recita il "Confiteor"
prima della Comunione
[69].
Si decide che gli altari debbano
essere spogli di tutto, anche della croce. La rubrica della riforma del
Giovedì Santo, non spiega cosa fare della croce d'altare, ma lo si
scopre accidentalmente da quella dell'indomani. In effetti nelle
rubriche del Venerdì Santo si parla di un altare senza croce
[71],
se ne può dedurre che è stata asportata durante la denudazione degli
altari, oppure in forma privata durante la notte (questi ed altri
problemi si ingenerano allorquando si mette mano ad una liturgia che
beneficia della stratificazione della tradizione e che mal sopporta le
incursioni frettolose). Forse, sulla base di un certo archeologismo
liturgico, si vogliono preparare gli spiriti allo spettacolo,
teologicamente non molto sensato, di una tavola nuda al centro del coro.
(MR 1952): La croce resta
sull'altare, velata e con i candelieri, troneggia sull'altare in attesa
di essere svelata l'indomani
[72].
Venerdì Santo
Il nome di "presantificati"
sottolineava la consacrazione delle specie avvenuta in un ufficio
precedente, si legava al ritorno solenne dell'eucaristia, che è una
parte importante e antica del rito, ma questo concetto è tenuto in
antipatia dalla commissione, che decide di riformare il nome e con esso
la struttura del rito: "ridurre le amplificazioni strutturali del
Medioevo, tanto poco indovinate della cosiddetta 'messa dei presantificati' alle severe e pure linee originali di una grandiosa
comunione generale"
[74].
Nemmeno la dicitura "in Parasceve" trova grazia, benché le sue
reminiscenze ebraizzanti denotino la più alta antichità.
(MR 1952): Si chiama "Missa Praesanctificatorum" oppure "Feria Sexta in Parasceve"
[75].
L'immagine della croce, specie
quella d'altare, era stata velata nella prima domenica di Passione,
perché restasse dove essa deve naturalmente stare, ovvero al centro
dell'altare, per poi essere svelata solennemente e pubblicamente il
Venerdì Santo, giorno del trionfo della Passione redentrice. Gli autori
della riforma sembrano non amare la croce d'altare e decidono di
rimandarla in sacrestia la sera del Giovedì Santo, in forma non solenne,
con i panieri che servono a portare le tovaglie dell'altare ormai
denudato, oppure durante la notte in una forma ignota di cui le rubriche
del Giovedì Santo non parlano. Proprio nel giorno più importante della
sua storia in cui la Croce dovrebbe svettare sull'altare, benché velata
all'inizio della cerimonia, essa è assente. Il fatto che sia presente,
da circa quindici giorni sull'altare, ma pubblicamente velata, rendeva
sensato lo svelamento pubblico successivo, invece di un a-liturgico
ritorno della croce dalla sacrestia, come se qualcuno l'avesse nascosta,
nottetempo, nell'armadio.
(MR 1952): La croce velata restava al
suo posto ossia sull'altare denudato delle tovaglie, con i soli
candelieri
[77].
Il tutto prende in nome più
narrativo di "Storia della Passione". Il motivo di questa modifica non è
chiaro, dato che la Commissione era parsa di parere opposto nel caso
analogo della Domenica delle Palme
[78].
Forse l'intento è di eliminare, come altrove, ogni segno che faccia
riferimento alla Messa, come lo è la lettura del Vangelo, e di
conseguenza giustificare la soppressione del nome di "Messa dei
presantificati".
(MR 1952): Il Vangelo si canta in
modo distinto dalla Passione, ma, in questo giorno di lutto, senza
incenso né lumi
[79].
Il fatto che il sacerdote abbia la
pianeta anche per un rito che non è quello della Messa stricto sensu
testimoniava dell'altissima antichità di queste cerimonie, riconosciuta
anche dai membri della Commissione. Essi da una parte sostengono che le
cerimonie del Venerdì erano costituite da "elementi che (fin
dall'antichità nda) rimasero sostanzialmente intatti"
[81],
dall'altra vorrebbero introdurre una modifica che separi la liturgia
eucaristica dalla "prima parte della liturgia, la liturgia della parola"
[82].
Questa distinzione, ancora in embrione, doveva essere significata,
secondo padre Braga, dal fatto che il celebrante indossasse solo la
stola e non la pianeta: "per la liturgia della parola (il celebrante)
era rimasto solo con la stola"
[83].
(MR 1952): Il sacerdote ha la pianeta
nera, giunto all'altare si prostra, nel frattempo gli accoliti spiegano
una sola tovaglia sull'altare nudo
[84].
La questione della preghiera per
i giudei, essendo del tutto accessoria ad uno studio sulla Settimana
Santa non può essere abbordata che in uno studio che faccia chiarezza
sul malinteso filologico relativo all'interpretazione erronea del parola
"perfidi"-"perfidia"
[85].
Con l'ambiguità espressiva si
introduce l'idea di una Chiesa alla ricerca della propria unità sociale
che ancora non avrebbe. La Chiesa, secondo la dottrina cattolica
tradizionale e solennemente definita, non manca della sua unità sociale
nello stadio terreno, poiché detta unità è una proprietà essenziale
della vera Chiesa di Cristo, questa unità non è una caratteristica che
bisogna ancora ricercare nel dialogo ecumenico, essa è già
metafisicamente presente. In effetti la frase di Cristo "ut unum sint",
è una preghiera efficace di Nostro Signore, come tale essa è già
realizzata. Coloro che sono fuori della Chiesa devono tornare ad essa,
devono tornare alla sua "unità" che già esiste, non devono riunirsi ai
cattolici per dar luogo ad un'unità che non esisterebbe ancora. Lo scopo
dei riformatori era invece eliminare da questa preghiera, ci dice Padre
Braga[87],
alcune parole ingombranti che parlavano delle anime ingannate dal
demonio e trascinate nella malvagità dell'eresia: "animas diabolica
fraude deceptas" e "haeretica pravitate". Nella stessa logica si voleva
eliminare la conclusione che si augurava un ritorno degli erranti
all'unità della verità di Cristo nella Sua Chiesa: "errantium corda
resipiscant, et ad veritatis tuae redeant unitatem". Tuttavia non si
poté riformare il testo dell'orazione, ma solamente il titolo, perché
all'epoca - si lamenta ancora Padre Braga - "l'unità era concepita nei
termini dell'ecumenismo preconciliare"
[88].
Altrimenti detto, nel 1956 l'unità della Chiesa era concepita come già
esistente e si chiedeva a Dio di incorporare ad un'unità già esistente
coloro che da questa unità erano lontani o separati. Nella Commissione
c'erano ancora dei membri di idee tradizionali che si opponevano
all'opera di erosione dottrinale, senza poter impedire la creazione di
un ibrido teologico, come è la scelta di lasciare il testo tradizionale,
ma col nuovo titolo. Lo stesso Annibale Bugnini, circa dieci anni dopo
si rese conto che pregare per una futura unità della Chiesa costituisce
un'eresia e ne fa menzione in un articolo de "L'Osservatore Romano" che
biasima il titolo della preghiera "per l'unità della Chiesa", introdotta
dieci anni prima dalla Commissione di cui era membro. Egli, lodando le
preghiere nuovamente introdotte nel 1965 scrive che l'orazione aveva
cambiato nome da "per l'unità della Chiesa" in "per l'unità dei
cristiani", perché "la Chiesa è sempre stata una", ma nel compenso
all'epoca si era riusciti ad eliminare le parole "eretici" e
"scismatici"
[89].
È triste constatare che queste altalenanti manovre si servono ad arte
della liturgia per veicolare novità teologiche.
(MR 1952): Il testo è lo stesso del
1956 dove si prega perché eretici e scismatici tornino all'unità della
Sua Verità, "ad veritatis tuae redeant unitatem"
[90],
manca il titolo ambiguo dell'orazione del 1956: "Pro unitate Ecclesiae".
Questa volta la croce torna
liturgicamente, cioè pubblicamente e non avvolta nei panieri coi
candelieri e i fiori come la sera precedente. In liturgia ciò che è
partito in processione solennemente, torna solennemente; questa
innovazione fa tornare solennemente un simbolo che la sera prima è stato
asportato insieme ad altri oggetti in forma privata, mettendolo, nel
migliore dei casi, in un canestro di vimini. Non si comprende affatto il
significato liturgico dell'introduzione di questa processione di ritorno
della croce nascosta. Siamo forse dinanzi al maldestro tentativo di
restituire il rito che si compiva a Gerusalemme nei secoli IV-V e che ci
è noto attraverso Egeria: "a Gerusalemme l'adorazione avveniva sul
Golgota. Egeria ricorda che la comunità si raccoglieva di buon mattino.
Davanti al Vescovo (…) e veniva portata la teca d'argento contenente le
reliquie della croce"
[92].
La restituzione di questa processione di ritorno della croce avviene in
un contesto che non è il Monte Calvario dei primi secoli, ma che è la
liturgia romana, la quale già da tempo aveva sapientemente elaborato e
integrato eventuali apporti gerosolimitani in un rito plurisecolare.
(MR 1952): La croce era rimasta
avvolta dal velo fin dalla prima domenica di passione, sull'altare; essa
veniva svelata pubblicamente nei pressi dello spazio dell'altare, cioè
nel punto in cui era restata pubblicamente velata fino ad allora
[93].
Si inventa la processione della
croce, ma la riforma decide di ridurre la processione del ritorno del
Corpo di Cristo a forma quasi privata, in un'inspiegabile inversione di
prospettive. Il Santissimo Sacramento era stato portato il giorno
precedente solennemente all'altare del Sepolcro (deliberatamente
utilizziamo questo nome di "Sepolcro", perché tutta la tradizione
cristiana lo chiama così, ivi compreso il Memoriale Rituum e la
Congregazione dei Riti, anche se i membri della Commissione mal
sopportavano questo termine
[95];
esso ci pare profondamente teologico e impregnato di quel "sensus fidei"
che a certi teologi fa spesso difetto). Appare logico e "liturgico" che
ad una processione solenne del tipo di quella del Giovedì Santo, faccia
seguito un ritorno di pari dignità il Venerdì Santo. Si tratta infatti
delle specie dello stesso Santissimo Sacramento del giorno precedente,
si tratta del Corpo di Cristo. Con questa innovazione si riducono gli
onori da rendersi al Santissimo e, nel caso della Messa solenne, si
arriva a stabilire che sia il diacono ad andare all'Altare del Sepolcro
a prendere il Santissimo, mentre il prete resterà tranquillamente seduto
allo stallo. Il Celebrante avrà l'amabilità di alzarsi allorquando,
sotto le specie eucaristiche, Nostro Signore, portato da un subalterno,
ritorna all'altare principale. Forse per questo motivo Giovanni XXIII
non volle applicare questa rubrica nella Messa celebrata in Santa Croce
in Gerusalemme e volle andare lui stesso, Papa e celebrante, a prendere
il Santissimo.
(MR 1952): Il Santissimo Sacramento
torna in una processione di solennità pari a quella del giorno
precedente. È il celebrante che va a prenderlo, come è naturale;
trattandosi di Nostro Signore stesso presente nell'ostia non si invia un
subalterno per portarlo all'altare
[96].
Non è dato comprendere perché il
Venerdì Santo gli onori da rendere a Dio debbano essere inferiori a
quelli degli altri giorni.
(MR 1952): L'ostia consacrata è incensata come di
consueto, il celebrante invece non è incensato
[98],
i segni di lutto sono chiari, ma non si estendono alla Presenza Reale.
"La preoccupazione pastorale di
una partecipazione cosciente e attiva della comunità cristiana" è
dominante, i fedeli devono diventar "veri attori della celebrazione (...)
era ciò che chiedevano i fedeli, soprattutto quelli più sensibili alla
nuova spiritualità (...) la commissione ha accolto le aspirazione fondate
del popolo di Dio"
[100].
Resta da dimostrare se queste aspirazioni fossero dei fedeli o di un
gruppo di liturgisti d'avanguardia. Resta anche da specificare
teologicamente cosa fosse la menzionata "nuova spiritualità" con le sue
"aspirazioni".
(MR 1952): Il "Pater" è recitato dal
Sacerdote
[101].
È vero che in questo giorno non
si ha, stricto sensu, sacrificio eucaristico con la separazione delle
sacre specie, ma è anche vero che la consumazione della vittima,
immolata il giorno precedente, è una parte, benché non essenziale, del
sacrificio. Di esso è in un certo senso la continuazione sacramentale,
poiché il Corpo consumato è pur sempre un Corpo immolato e sacrificato,
per questo motivo la tradizione faceva menzione del sacrificio nelle
preghiere connesse alla consumazione dell'ostia. Alcuni membri della
commissione ritengono che dopo tanti anni di tradizione sia venuto il
momento di correggere gli errori e dicono che parole come "meum ac
vestrum sacrificium" erano "completamente fuori posto in questa
occasione, trattandosi non di un sacrificio, ma solo di comunione"
[103].
La decisione sarà quindi d'abolire queste preghiere plurisecolari.
(MR 1952): Si ha la preghiera "Orate fratres ut meum ac vestrum sacrificium... ", ma la preghiera, visto il
singolare contesto, non è seguita dalla consueta risposta
[104].
L'immissione di una parte d'ostia
consacrata (il rito è conosciuto anche nel rito bizantino) nel vino non
consacrato, evidentemente non consacra il vino, né ciò è mai stato
creduto dalla Chiesa. Semplicemente quest'unione manifesta
simbolicamente, ma non realmente, la riunificazione di quel frammento
del Corpo di Cristo al Sangue, a simboleggiare l'unità del Corpo Mistico
nella vita eterna, causa finale di tutta l'opera della Redenzione, che
non disdice ricordare il Venerdì Santo. La "Memoria" conservata
nell'archivio della Commissione afferma che questa parte del rito era
assolutamente da sopprimere perché "esistendo poi agli inizi del
Medioevo la credenza che la sola immissione del pane consacrato (sic!)
nel vino bastasse per consacrare anche il vino stesso, fu introdotto
anche questo rito; approfonditi poi gli studi sull'eucaristia, ci si
rese conto della infondatezza di quella credenza, ma il rito restò"
[106].
L'affermazione ha dello scandaloso per l'assenza di fondamento storico e
di metodo scientifico, comporta anche conseguenze teologiche assai
gravi. Anzitutto resta da dimostrare storicamente che nel Medioevo fosse
diffusa la credenza di cui si parla. Alcuni teologi hanno potuto avere
posizioni erronee, ma ciò non prova affatto che la Chiesa Romana abbia
errato a tal punto da inserirla nella liturgia con questo preciso scopo
teologico. In questo contesto si afferma esplicitamente che la Chiesa
Romana, pur resasi conto del grave errore, non abbia voluto correggerlo;
si sostiene che la Chiesa Romana possa cambiare opinione nel corso dei
secoli su un argomento tanto rilevante; si afferma anche che essa possa
errare in relazione a un fatto dogmatico (come la sua liturgia
universale) e ciò addirittura per più secoli. Forse si cercava un
fondamento per giustificare l'opera riformatrice inaugurata, che si
accingeva a correggere tutti gli errori che generazioni intere di Papi
non avevano visto, ma che l'occhio vigile della Commissione aveva
finalmente smascherato. Spiace constatare che queste affermazioni sono
imbevute dello pseudo-razionalismo di stampo positivista in voga negli
anni cinquanta. Spesso ci si fondava su studi sommari e talvolta poco
scientifici, per demolire le deprecate "tradizioni medievali" e
introdurre utili "evoluzioni".
(MR 1952): Si immette una parte di
ostia consacrata nel vino, ma si omettono, con grande coerenza
teologica, le preghiere relative alla consumazione del sangue
[107].
Le pratiche di devozione e di
pietà si erano nel passato sviluppate in modo da essere coerenti con la
liturgia. Un esempio fra molti: in moltissimi luoghi a partire dal
mezzogiorno si espone ancor oggi un grande crocifisso, davanti al quale
si predicano le tre ore di agonia di Nostro Signore (dalle 12 alle 15);
in conseguenza dello spostamento d'orario ci si ritrova di fronte al
paradosso di una predicazione davanti alla scena della crocifissione,
allorquando la croce con il crocifisso dovrebbero essere ancora velati
perché il rito deve aver luogo nel pomeriggio
[108].
Alcune diocesi sono ancor oggi costrette a spostare la cerimonia dell' "Azione liturgica" in una chiesa diversa da quella nella quale si
svolgono le antiche pratiche di pietà, per evitare che la vistosa
incongruenza sia troppo evidente. Numerosi esempi analoghi potrebbero
essere addotti. Resta comunque l'evidenza che la riforma, "pastorale"
per eccellenza, non fu "pastorale", perché nata da esperti che non
avevano un reale contatto con le parrocchie né con la devozione e la
pietà popolari, che anzi spesso disprezzavano. Secondo i riformatori,
nelle ore pomeridiane si era creato un "vuoto liturgico" e nel tempo si
era cercato di rimediarvi "introducendo elementi paraliturgici, come le
tre ore d'agonia, la Via Crucis, l'Addolorata"
[109].
La Commissione decide quindi di rimediare allo scandalo con il peggiore
dei metodi "pastorali", che è quello di scalzare le pratiche popolari e
di non tenerle in alcuna considerazione. Il fare sprezzante di questa "pastorale"
scorda che l' "inculturazione" è un fenomeno cattolico di
lunga data, il quale consiste a conciliare dogma e pietà, a seconda
delle latitudini e non ad imporre univocamente i provvedimenti degli "esperti".
(MR 1952): Il problema non si pone
per questioni di orario, liturgia e pietà si erano sviluppate nei secoli
l'una in funzione dell'altra, senza per questo contrapporsi in un
antagonismo inutile quanto immaginario.
Sabato Santo
Con la riforma operata si rendono
inutilizzabili proprio nel giorno del Sabato Santo tutti i candelabri
pasquali della cristianità alcuni dei quali risalenti agli albori del
Cristianesimo. Col pretesto di tornare alle origini, i capolavori
liturgici dell'antichità diventano inservibili pezzi da museo. Il numero
ternario delle invocazioni "lumen Christi" non ha più una ragione
liturgica.
(MR 1952): All'esterno si benediceva
il fuoco nuovo e i grani d'incenso, ma non il cero; il fuoco passava
all'arundine, una sorta di asta con tre ceri alla sommità, i quali erano
illuminati in processione, progressivamente ad ogni invocazione "lumen
Christi", di qui le tre invocazioni (tante quanti i ceri illuminati);
con uno di questi ceri si accendeva il cero pasquale che fin dall'inizio
della cerimonia era sul suo candelabro pasquale (in molte chiese
paleocristiane l'altezza del candelabro aveva determinato la costruzione
di un ambone di pari altezza per poter raggiungere il cero). Il fuoco
(la luce della Resurrezione) veniva portato dall'arundine con tre ceri
(la Santissima Trinità) al grande cero pasquale (il Cristo Risorto), a
simboleggiare che la Resurrezione è opera della Santissima Trinità
[111].
-
(OHS 1956): Invenzione della collocazione del
cero pasquale al centro del coro, dopo una processione con esso in
una chiesa che si illumina progressivamente ad ogni invocazione
"lumen Christi", ad ogni invocazione si genuflette verso il cero
(sic), alla terza invocazione tutta la chiesa è illuminata
[112].
Inventata una processione col
cero, si decide di collocare quest'ultimo al centro del coro dove
diventa punto di riferimento della preghiera, così come lo era diventato
durante la processione; diventa più importante dell'altare e della
croce, in una strana novità che altera l'orientamento della preghiera a
fasi intermittenti.
(MR 1952) : Il cero sta spento sul suo
candelabro, spesso nel lato del Vangelo, diacono e suddiacono vi si
rendono con l'arundine per accenderlo al canto del preconio, gli unici
ceri accesi dal fuoco-luce della Resurrezione sono quelli dell'arundine
fino al canto dell' "Exultet"
[113].
Alcuni riformatori volevano
stravolgere questa cerimonia, ma l'amore che sempre si portava al canto
dell' "Exultet" fece che altri si opponessero a modifiche del testo: "la
commissione però, dato che i passi che si potrebbero eliminare sono
pochi e di piccola mole, pensa che sia più opportuno conservare il testo
tradizionale"
[115].
il risultato fu l'ennesimo pasticcio di un canto tradizionale associato
ad un rito totalmente alterato. Avvenne così che uno dei momenti più
significativi dell'intero ciclo liturgico diventasse una scena teatrale
di disarmante incoerenza. In effetti le azioni di cui parla il cantore
dell' "Exultet" sono state già fatte circa mezz'ora prima sul sagrato
della chiesa. Si canta l'inserzione dei grani d'incenso, "suscipe pater
incensi huius sacrificium vespertinum"
[116],
ma essi sono già da tempo infissi nel cero. Si magnifica l'accensione
del cero con la luce della Resurrezione, "sed iam columnae huius
praeconia novimus quam in honorem Dei rutilans ignis accendit"
[117],
ma il cero è acceso da tempo e già cola abbondante cera. Non vi è più
alcuna logica. La simbologia della luce è ancora stravolta allorquando
si canta trionfalmente l'ordine di accendere tutte le luci, simbolo
della Resurrezione, "alitur enim liquantibus ceris, quas in substantiam
pretiosae huius lampadis apis mater eduxit"
[118],
ma in una chiesa che, già da tempo, è tutta illuminata dai ceri accesi
col fuoco nuovo. Questa simbologia riformata non è comprensibile
semplicemente perché non è simbolica, le parole pronunciate non hanno
più alcun rapporto con la realtà del rito. Il canto del preconio
pasquale costituiva inoltre, unitamente ai gesti che lo accompagnavano,
la benedizione diaconale per eccellenza, dopo la riforma il cero è stato
benedetto con acqua all'esterno della chiesa, ma si vuol mantenere una
parte dell'antica benedizione perché di grande bellezza estetica,
purtroppo così facendo la liturgia è ridotta a teatro.
(MR 1952): Il canto dell' "Exultet"
inizia davanti al cero spento, i grani di incenso si infiggono quando il
canto parla dell'incenso, il cero è acceso dal diacono e le luci della
chiesa si illuminano quando il canto fa riferimento a queste azioni,
queste azioni unite al canto costituiscono la benedizione
[119].
La scelta è semplicemente
stravagante e incoerente, non si è mai visto spezzare in due parti una
preghiera impetratoria, l'introduzione dei riti battesimali al suo
interno è di una incoerenza ancora maggiore.
(MR 1952) : Compiuta la benedizione
del fonte battesimale, si cantano le litanie che precedono la Messa
[121].
In sostanza si decide di
sostituire il fonte battesimale con una casseruola da installare nel
centro del coro, la scelta è dettata ancora una volta dall'ossessione
che tutti i riti siano compiuti da "ministri sacri rivolti al popolo"
[123],
ma con le spalle a Dio; i fedeli devono in questa logica diventare i
"veri attori della celebrazione (…) la Commissione ha accolto le
aspirazioni fondate del popolo di Dio (…) la Chiesa era aperta ai fermenti
di rinnovamento"
[124].
Queste scelte avventate e fondate da un populismo pastorale che il
popolo non aveva mai chiesto, finirono per distruggere tutta la ratio
dell'architettura sacra dalle origini ad oggi. Un tempo il fonte
battesimale era fuori della chiesa o, in epoca successiva, all'interno
delle mura dell'edificio, ma nei pressi della porta d'accesso, perché,
secondo la teologia cattolica, il battesimo è la porta, è la "ianua
sacramentorum". Esso è il sacramento che rende membro della Chiesa colui
che ancora è fuori da essa; è il sacramento che permette l'accesso reale
nella Chiesa, come tale era quindi figurato dai gesti liturgici. Il
catecumeno riceverà il carattere che lo farà membro della Chiesa, perciò
deve essere accolto all'ingresso, lavato dall'acqua battesimale e
acquista così il diritto di accedere nella navata in quanto nuovo membro
della Chiesa, in quanto fedele; ma in quanto fedele accede alla navata e
non al coro dove siede il clero, che è composto da membri della Chiesa
che hanno il sacerdozio ministeriale o che ad esso si relazionano.
Questa distinzione tradizionale era voluta perché il sacerdozio
cosiddetto "comune" dei battezzati è distinto dal sacerdozio
ministeriale, è distinto per essenza e non per specie, sono due cose
diverse, non sono gradi differenti di una stessa essenza. I cambiamenti
apportati invece fanno accedere nel coro (luogo riservato ai membri
facenti parte del clero) non soltanto i battezzati (come già hanno fatto
per il Giovedì Santo), ma addirittura il non battezzato. Colui che è
ancora "preda del demonio" perché ha il peccato originale, viene
trattato addirittura come colui che ha ricevuto l'ordine sacro e accede
al coro sebbene ancora catecumeno. La simbologia tradizionale ne risulta
massacrata.
(MR 1952): La benedizione dell'acqua
battesimale si fa al fonte battesimale, fuori della chiesa o in fondo ad
essa; l'eventuale catecumeno è accolto all'ingresso della Chiesa, riceve
il Battesimo, poi può accedere alla navata, ma non entra nel coro, come
è logico, né prima né dopo il Battesimo
[125].
Dopo l'invenzione di un battistero
nel coro, ci si trova davanti al problema dell'esigenza di riportare
l'acqua utilizzata da qualche parte, si decide quindi di inventare una
cerimonia per portare l'acqua al fonte dopo averla benedetta davanti ai
fedeli e soprattutto dopo aver amministrato un eventuale Battesimo. La
traslazione dell'acqua battesimale si compie cantando il "sicut cervus",
cioè quella parte del salmo 41 che fa riferimento alla sete del cervo,
che si scatenerebbe dopo il morso del serpente e che si estingue solo
bevendo l'acqua salutare. Tuttavia non si tiene nel dovuto conto che il
cervo era assetato dell'acqua battesimale dopo il morso del serpente
infernale, ma se il battesimo è già stato conferito il cervo non ha più
sete perché, in figura, ha già bevuto! La simbologia è alterata, quasi
capovolta.
(MR 1952): Alla fine del canto delle
profezie il celebrante si dirige verso il fonte battesimale per
procedere alla benedizione dell'acqua e al Battesimo se necessario,
mentre si canta il "sicut cervus"
[127].
Il canto precede, logicamente, il conferimento del Battesimo.
Si procede in certo modo "alla
cieca" con creazioni pastorali che non hanno un vero appoggio nella
storia della liturgia. Sulla scia di quell'idea per cui i sacramenti
devono rivivere nelle coscienze si pensa al rinnovamento delle promesse
battesimali. Esso diventa una sorta di "presa di coscienza" del
sacramento ricevuto in passato. Una simile tendenza si era affermata già
negli anni venti del secolo scorso. In velata polemica col provvedimento
di San Pio X sulla comunione dei bambini, si era introdotta la singolare
pratica della "comunione solenne" o "professione di fede": i ragazzi
verso i tredici anni dovevano "rifare" la prima comunione, in una sorta
di presa di coscienza del sacramento che già ricevevano da qualche anno.
La pratica, pur senza mettere in discussione la dottrina cattolica dell'
"ex opere operato", accentua nel sacramento l'aspetto soggettivo su
quello oggettivo. La nuova pratica finì col tempo per oscurare e far
trascurare il sacramento della Cresima. Un analogo processo si
riscontrerà nel 1969 con l'introduzione nel Giovedì Santo della
cerimonia del "rinnovamento delle promesse sacerdotali". Con questa
prassi si introduce un legame tra ordine sacramentale e ordine
sentimentale-emozionale, tra efficacia del sacramento e presa di
coscienza, che non ha gran riscontro nella tradizione. Il substrato di
queste innovazioni, che non hanno fondamento alcuno né nella Scrittura,
né nella prassi della Chiesa, sembra essere una debole convinzione
nell'efficacia dei sacramenti. Pur non essendo in sé un'innovazione
apertamente erronea, appare tuttavia molto incline a teorie di origine
luterana, le quali, escludendo il ruolo dell' "ex opere operato",
ritengono che i riti sacramentali servano più a "risvegliare la fede",
che a conferire la grazia.
Resta inoltre difficile capire cosa veramente si cerchi in questa
riforma, infatti si fanno tagli per ridurre i tempi delle celebrazioni,
ma si aggiungono noiosi passaggi che appesantiscono oltremisura la
cerimonia.
(MR 1952): Non esiste il rinnovamento
delle promesse battesimali, così come, in questa forma, non è mai
esistito nella storia tradizionale della liturgia d'Oriente e
d'Occidente.
I toni di quest'ammonizione
moraleggiante tradiscono terribilmente l'epoca della redazione (la fine
degli anni cinquanta), e oggi suonano già come desueti oltre ad essere
un'aggiunta alquanto noiosa. Introducono inoltre il tipico modo
a-liturgico di rivolgersi ai fedeli durante il rito, che è un ibrido fra
l'omelia e la celebrazione, il quale avrà tanto successo negli anni
successivi.
(MR 1952): Non esiste.
Il Padre nostro è preceduto da
un'esortazione dai toni sentimentali.
(MR 1952): Non esiste.
Si era impetrato in ginocchio,
prima della benedizione dell'acqua battesimale, in seguito si compiono
un gran numero di cerimonie e spostamenti nel coro, poi si gioisce per
un evento come la benedizione dell'acqua battesimale o per un eventuale
Battesimo, quindi si riprende la stessa preghiera litanica e
impetratoria che era stata interrotta mezz'ora prima, nel punto preciso
in cui la si era lasciata in sospeso (difficile determinare se i fedeli
si ricordino quando hanno lasciato a metà questa preghiera).
L'innovazione è incoerente e incomprensibile.
(MR 1952): Le litanie, recitate integralmente e senza
interruzioni, si cantano dopo la benedizione del fonte battesimale,
prima della Messa
[132].
Si decide che la Messa debba
iniziare omettendo la recita del Confiteor e del salmo penitenziale; il
salmo 42, che ricorda l'indegnità del sacerdote di accedere all'altare,
non è apprezzato, forse perché esso si recita ai piedi dell'altare prima
di potervi ascendere. Quando la logica liturgica che sottende è quella
relativa all'altare visto come "ara crucis", luogo sacro e terribile
dove si rende presente la Passione redentrice di Cristo si comprende una
preghiera che ricordi l'indegnità per chiunque di salire quei gradini.
La sparizione del salmo 42, che negli anni successivi sarà eliminato da
tutte le messe, sembra invece voler preparare alla ritualità di un
altare che simboleggia una mensa comune, più che il Calvario, di
conseguenza non incute più quel sacro timore e quel senso d'indegnità
affermato nel salmo.
(MR 1952): La Messa inizia con le
preghiere ai piedi dell'altare, col salmo 42: "Iudica me Deus", col
Confiteor
[134].
Questa frettolosa abolizione ha
tutta l'aria di essere stata aggiunta all'ultimo momento. La Pentecoste
da sempre prevedeva una vigilia simile nei riti a quella pasquale. La
riforma tuttavia non aveva avuto modo d'occuparsi della Pentecoste. Né
si potevano lasciare in piedi i due riti, che, a distanza di cinquanta
giorni, si sarebbero svolti l'uno in forma riformata, l'altro in forma
tradizionale. Nella fretta si decise di sopprimere quello che non si
aveva avuto il tempo di riformare, la scure cadde sulla Vigilia di
Pentecoste. Tanta improvvida fretta fece si che il rapido taglio dei
riti della Vigilia di Pentecoste non fosse armonizzato coi testi della
Messa che tradizionalmente seguiva tali riti. Di conseguenza nel rito
violentemente mutilato restano frasi che rendono incongruenti le parole
del celebrante nel canone. Questo canone prevede che la Messa sia
preceduta dai riti battesimali, che invece sono stati soppressi. In
conseguenza, in seguito alla riforma, il celebrante dice durante lo
speciale "hanc igitur" le parole relative all'atto battesimale della
vigilia, sia esso la benedizione del fonte o la collazione del
sacramento: "pro his quoque, quos regenerare dignatus es ex aqua, et
Spiritu Sancto, tribuens eis remissionem peccatorum"
[136],
ma di questo rito non vi è più traccia alcuna. La commissione nella
fretta di sopprimere non se era forse resa conto.
(MR 1952): La Vigilia di Pentecoste
ha i suoi riti di carattere battismale cui fa riferimento l'"hanc
igitur" della Messa seguente
[137].
Conclusione
In conclusione, come già affermato, i cambiamenti non si limitarono a
questioni di orario, che legittimamente e sensatamente potevano essere
modificati per il bene dei fedeli, ma stravolsero i riti secolari della
Settimana Santa. Fin dalla Domenica delle Palme si inventa una ritualità
verso il popolo e con le spalle alla croce e al Cristo dell'altare, il
Giovedì Santo si fanno accedere i laici nel coro, nel rito del Venerdì
Santo si riducono gli onori da rendere al Santissimo e si altera la
venerazione della croce, nel Sabato Santo non solo si lascia libero
sfogo alla fantasia riformatrice degli esperti, ma si demolisce la
simbologia relativa al peccato originale e al Battesimo come porta
d'accesso alla Chiesa. In un'epoca che dice di voler riscoprire la
Scrittura si riducono i passaggi letti in questi importantissimi giorni,
e si tagliano proprio i passaggi evangelici relativi all'istituzione
dell'eucaristia nei Vangeli di Matteo, Luca e Marco. Nella tradizione
ogni volta che si leggeva in questi giorni l'istituzione dell'eucaristia
essa era messa in rapporto con il racconto della Passione, ad indicare
quanto l'Ultima cena fosse anticipazione della morte sulla croce
dell'indomani, ad indicare quanto l'ultima cena avesse una natura
sacrificale. Tre giorni erano consacrati alla lettura di questi passi,
la Domenica delle Palme, martedì e mercoledì santo, grazie alla riforma
l'istituzione dell'eucaristia scompare dall'intero ciclo liturgico!
Tutta la ratio di questa riforma appare permeata da un misto di
razionalismo e archeologismo dai contorni a volte fantasiosi. Non si
vuole affatto affermare che questo rito manchi della necessaria
ortodossia, sia perché l'affermazione non consta, sia perché
l'assistenza divina promessa da Cristo alla Chiesa anche in quelli che
la teologia chiama "fatti dogmatici" (e fra essi riteniamo debba
annoverarsi la promulgazione di una legge liturgica universale)
impedisce l'espressione chiaramente eterodossa all'interno dei riti. A
fronte di questa precisazione, non ci si può esimere tuttavia dal notare
l'incongruenza e la stravaganza di alcuni riti della Settimana Santa
riformata, nel contempo si reclama la possibilità e la liceità di una
discussione teologica sull'argomento, nella ricerca della vera
continuità dell'espressione liturgica della Tradizione.
Negare che l' "Ordo Hebdomadae Sanctae Instauratus" sia il prodotto di
un gruppo di sapienti accademici, cui purtroppo si accompagnarono
avventati sperimentatori liturgici, è negare la realtà dei fatti; con il
rispetto che dobbiamo all'autorità papale che promulgò questa riforma ci
siamo permessi di avanzare le suddette critiche, poiché la natura
sperimentale di queste innovazioni richiede che di esse si faccia un
bilancio.
Secondo Padre Carlo Braga: questa riforma fu la "testa d'ariete" che
scardinò la liturgia romana dei giorni più santi dell'anno, tanto
stravolgimento ebbe notevoli ripercussioni su tutto lo spirito liturgico
susseguente. In effetti segnò l'inizio di una deprecabile attitudine per
cui in materia liturgica si poteva fare e disfare a piacimento degli
esperti, si poteva sopprimere o reintrodurre sulla base di un'opinione
storico-archeologica, salvo poi rendersi conto che gli storici si erano
sbagliati (il caso più eclatante si rivelerà, mutatis mutandis, il tanto
decantato "canone di Ippolito").
La liturgia non è il giocattolo nelle mani del teologo o del simbolista
più in voga, la liturgia trae la sua forza dalla Tradizione, dall'uso
che la Chiesa infallibilmente ne ha fatto, da quei gesti che si sono
ripetuti nei secoli, da una simbologia che non può esistere solo nelle
menti di accademici originali, ma che risponda al senso comune del clero
e del popolo, che per secoli ha pregato in quel modo. La nostra analisi
è confermata dalla sintesi di Padre Braga, protagonista d'eccezione di
quegli eventi: "ciò che non era possibile, psicologicamente e
spiritualmente, al tempo di Pio V e Urbano VIII a causa della tradizione
(e vorremmo sottolineare questo "a causa della tradizione" nda) della
insufficiente formazione spirituale e teologica, della mancanza di
conoscenza delle fonti liturgiche, era possibile al tempo di PIO XII"
[138].
Pur condividendo l'analisi dei fatti, sia permesso obiettare che la
Tradizione, lungi dal costituire un ostacolo alle opere di riforma
liturgica, ne è il fondamento. Trattare con sufficienza l'epoca
successiva al Concilio di Trento e definire San Pio V e i Papi che gli
succedettero, uomini "dalla insufficiente formazione spirituale e
teologica" è pretestuoso e pressoché eterodosso nel suo rifiuto
dell'opera plurisecolare della Chiesa. Non è un mistero che questo fu il
clima negli anni '50 e '60 durante le riforme. Sotto pretesto d'archeologismo
si finisce per sostituire alla saggezza millenaria della Chiesa, il
capriccio dell'arbitrio personale. Così facendo non si "riforma" la
liturgia, ma la si "deforma". Sotto il pretesto di restaurare aspetti
antichi, sui quali esistono studi scientifici di valore dubbio e
altalenante, ci si sbarazza della tradizione e, dopo aver squarciato il
tessuto liturgico, si fa un vistoso rammendo ricucendovi un reperto
archeologico di improbabile autenticità. L'impossibilità di resuscitare
nella loro integralità riti che, se esistiti, sono morti da secoli, fa
si che il resto dell'opera di "restauro" sia lasciato allo sfogo della
libera fantasia degli "esperti".
Il giudizio globale sulla riforma della Settimane Santa, ma non solo, in
ragione del carattere di assemblaggio artefatto e di attuazione di
intuizioni personali, mal raccordate con la tradizione, è
complessivamente alquanto negativo, essa non costituisce certo un
modello di riforma liturgica. Si è analizzato il caso della riforma del
1955-56, perché fu, secondo Annibale Bugnini, la prima occasione
d'inaugurare un nuovo modo di concepire la liturgia.
I riti nati da questa riforma furono universalmente praticati nella
Chiesa per pochissimi anni, in un susseguirsi continuo di riforme. Oggi
quel modo artefatto di concepire la liturgia sta tramontando. Una vasta
opera di riappropriazione delle ricchezze liturgiche del rito romano si
fa strada. Lo sguardo deve andare immancabilmente a ciò che la Chiesa ha
fatto per secoli, nella certezza che quei riti secolari beneficiano
dell' "unzione" dello Spirito Santo e in quanto tali costituiscono il
modello insostituibile di ogni opera di riforma. L'allora Cardinal
Ratzinger ebbe a dire: "nel corso della sua storia la Chiesa non ha mai
abolito o proibito forme ortodosse di liturgia, perché ciò sarebbe
estraneo allo spirito stesso della Chiesa"
[139],
esse, specie se millenarie restano il faro per ogni opera di riforma.
__________________________
[1]
Cf. S. CONGREGRAZIONE DEI RITI, Decr. Dominicae Resurrectionis, 9
febbraio 1951: AAS 43, 1951, pp. 128 ss.; Decr. Maxima redemptionis
nostrae mysteria, 16 novembre 1955: AAS 47, 1955, pp. 838 ss.
[2]
N. GIAMPIETRO, A cinquant'anni dalla riforma liturgica della
Settimana Santa, in Ephemerides liturgicae, anno CXX, 2006, n. 3
luglio-settembre, p. 295
[3]
A. BUGNINI, La riforma liturgica (1948-1975),
Roma 1983, p. 17 e ss.
[4]
C. BRAGA, "Maxima Redemptionis Nostrae Mysteria" 50 anni dopo
(1955-2005), in Ecclesia Orans n. 23 (2006), p. 11, l'autore afferma
chiaramente di aver vissuto in prima persona la riforma e di aver
partecipato attivamente ai lavori
[5]
A. BUGNINI, C. BRAGA, Ordo Hebdomadae Sanctae instauratus, Roma 1956;
per i commenti storico critici si veda anche: Sacra Congregatio
Rituum - sectio Historica n. 90,
De instauratione liturgica maioris
hebdomadae. Positio, Typis Pol. Vaticanis 1955
[6]
N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 300
[7]
A. BUGNINI, La Riforma liturgica, cit., p. 19
[8] ibidem
[9]
N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 320-327; la conservazione del rito
tradizionale fu tuttavia possibile in terra santa fino all'anno
2000.
[10]
L. GROMIER, Commentaire du Cerimoniale Episcoporum, Paris, 1959
[11]
L. GROMIER, Semaine Sainte Restaurée,
in Opus Dei,
1962, n. 2, p. 76-90
[12]
Si veda la documentazione fotografica e la conferma data da Mons.
Bartolucci che ricevette ordine da Mons. Dante di seguire i riti
tradizionali : P. CIPRIANI, S. CARUSI (a cura di ),
Intervista a
Mons. Domenico Bartolucci, su
Disputationes Theologicae (http://disputationes-theologicae.blogspot.com/2009/08/mons-bartolucci-interviene-sulla.html)
[13]
C. BRAGA, op. cit., p. 33
[14]
F. ANTONELLI, "La riforma liturgica della Settimana Santa:
importanza attualità prospettive" in
La Restaurazione liturgica
nell'opera di Pio XII. Atti del primo Congresso Internazionale di
Liturgia Pastorale, Assisi-Roma, 12-22 settembre 1956, Genova 1957,
p. 179-197, citato in C. BRAGA, op. cit, p. 34
[15]
Ordo Hebdomadae Sanctae Instauratus, iuxta editionem typicam
vaticanam, Turonibus 1956 (d'ora in poi OHS 1956), p. 3 e 9; la
numerazione della pagine è identica in ogni edizione tipica.
[16]
Archivio della Congregazione dei Santi, fondo Sacra Congregatio
Rituum, Annotazione intorno
alla riforma della liturgia della Domenica delle Palme,
p. 9, citato in N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 309
[17]
Missale Romanum, Ex Decreto Sacrosancti Concilii Tridentini
Restitutum S. Pii V Pontificis Maximi jussu editum aliorum pontificum
cura recognitum a Pio X Reformatum et Benedicti XV Auctoritate
Vulgatum, editio vigesima quinta juxta typicam vaticanam, Turonibus
MCMXLII (d'ora in poi MR 1952), p. 455
[18]
L. GROMIER, op. cit., p. 3
[19]
MR 1952, p. 129
[20]
OHS 1956, p. 3
[21]
MR 1952, xxvii
[22]
OHS 1956, p. 3
[23]
C. BRAGA, op. cit., p.22
[24]
MR 1952, p. 129-132
[25]
OHS 1956, p. 3, 4
[26]
OHS 1956, p. 3; cfr. anche la nota 13
[27]
C. BRAGA, op. cit., p. 306
[28]
MR 1952, p. 131, 132
[29]
OHS 1956, p. 3, 4
[30]
N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 307
[31]
ibidem
[32]
ibidem
[33]
ibidem
[34]
ibidem
[35]
MR 1952, p. 133, 134
[36]
OHS 1952, p. 7
[37]
P. MARTINUCCI, Manuale Sacrarum Caerimoniarum, pars I, vol. II, p.
183
[38]
OHS 1956, p. 8
[39]
MR 1952, p. 135
[40]
ibidem
[41]
OHS 1956, p. 9
[42]
ibidem
[43]
N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 309
[44]
C. BRAGA, op. cit., p. 25
[45]
OHS 1956, p. 14
[46]
MR 1952, p. 141
[47]
OHS 1956, p. 11
[48]
N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 304, 305
[49]
MR 1952, p. 137
[50]
OHS 1956, p. 15; nel testo si fa divieto di aggiungere le vecchie
orazioni previste.
[51]
C. BRAGA, op. cit., p. 28; N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 304, 305
[52]
MR 1952, p. 118, 142
[53]
OHS 1956, p. 17
[54]
MR 1952, p. 143, 144
[55]
OHS 1956, p. 22
[56]
MR 1952, p. 149, 150
[57]
OHS 1956, p. 55, rubrica n. 4
[58]
C. BRAGA, op. cit., p. 26
[59]
N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 294
[60]
C. BRAGA, p. 27
[61]
P.
MARTINUCCI
[62]
OHS 1956, p. 55, il tabernacolo deve inoltre essere vuotato delle
ostie precedentemente consacrate.
[63]
ibidem
[64]
MR 1952, p. 154 e ss
[65]
OHS 1956, p. 57
[66]
C. BRAGA, op. cit., p. 17
[67]
MR 1952, p. 158, 159
[68]
OHS 1956, p. 61
[69]
Cerimoniale Episcoporum,
l. II, cap. XXIX, 3
[70]
OHS 1956, p. 64
[71]
OHS 1956, p. 65, oppure il trasporto della croce è incluso in quel
vago passaggio "celebrans (...) denudat omnia altaria ecclesiae",
ibidem, p. 63 nota n. 7
[72]
MR 1952, p. 158
[73]
OHS, p. 65
[74]
N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 315
[75]
MR 1952, p. 160
[76]
OHS, p. 64
[77]
MR 1952, p. 171
[78]
N. GIAMPIETRO, p. 304, 305
[79]
MR 1952, p. 164
[80]
OHS, p. 64
[81]
N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 314
[82]
C. BRAGA, op. cit., p. 28
[83]
C. BRAGA, p. 30
[84]
MR 1952, p. 160
[85]
Sul significato da attribuire a questi termini si veda il decreto
della Sacra Congregazione dei Riti del 10 giugno 1948, in Acta
Apostolicae Sedis, XL, 1948, p. 342
[86]
Aggiungiamo la constatazione, dell'ordine della storia del costume,
che nei messali che si consultano, o nei fascicoli dell' "Ordo" a
questo punto si rinvengono correzioni a penna o foglietti volanti
che ricordino al celebrante, senza obbligarlo ad acquistare un altro
messale, le innumerevoli correzioni apportate alle orazioni a epoche
differenti a partire dagli anni cinquanta, segno inequivocabile di
una liturgia che è, ci si conceda l'espressione, in "evoluzione
permanente".
[87]
C. BRAGA, op. cit., p. 30
[88]
ibidem
[89]
A. BUGNINI, Le nuove
orazioni del Venerdì Santo, in
L'Osservatore Romano, del 19 marzo 1965
[90]
MR 1952, p. 169
[91]
OHS 1956, p. 78
[92]
C. BRAGA, op. cit., p. 30, 31
[93]
MR 1952, 171
[94]
OHS 1956, 82
[95]
C. BRAGA, op. cit., p. 28. La conferma di quest'avversione di alcuni
membri della Commissione per la dicitura "sepolcri" si ritrova
descritta anche in N. GIAMPIETRO, op. cit, p. 312
[96]
MR 1952, p. 174
[97]
OHS 1956, p. 82
[98]
MR 1952, p. 174
[99]
OHS 1956, p. 83
[100]
C. BRAGA, p. 18
[101]
MR 1952, p. 175
[102]
OHS 1956, p. 83
[103]
N. GIAMPIETRO, op. cit. , p. 297
[104]
MR 1952, p. 174
[105]
OHS 1956, p. 83
[106]
N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 297
[107]
MR 1952, p. 176
[108]
OHS 1956, p. iv
[109]
N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 314
[110]
OHS 1956, p. 86
[111]
MR 1952, p. 178
[112]
OHS 1956, p. 88
[113]
MR 1952, p. 178
[114]
OHS 1956, p. 89
[115]
N. GIAMPIETRO, op. cit., p. 318
[116]
OHS 1956, p. 94
[117]
OHS 1956, p. 94
[118]
OHS 1956, p. 94
[119]
MR 1952, p. 179-185; in sede storica si potrà discutere
dell'evoluzione della connessione delle parti cantate con i gesti,
assegnando epoche diverse all'introduzione dei gesti in relazione
all'evoluzione del testo; tuttavia non si può negare lo sviluppo
simbiotico di ritualità gestuale e significato delle parole nel
corso della storia, innegabilmente esso si era da secoli
stabilizzato, in modo armonioso e significativo, sotto il sigillo
della tradizione.
[120]
OHS 1956, p. 101-102, 113-114
[121]
MR 1952, p. 207
[122]
OHS 1956, p. 103
[123]
C. BRAGA, p. 23
[124]
C. BRAGA, p. 18, 19
[125]
MR 1952, p. 199 e ss.
[126]
OHS 1956, p. 111; una rubrica alquanto confusa è prevista alla
rubrica n. 23 nell'eventuale uso di un Battistero situato separato
dalla chiesa, in questo caso il "sicut cervus" è cantato al momento
opportuno, non è comprensibile il perché di questa incongruenza che
contraddice la rubrica precedente.
[127]
MR 1956, p. 199
[128]
OHS 1956, p. 112
[129]
OHS 1956, p. 112
[130]
OHS 1956, p. 112
[131]
OHS 1956, p. 113-115
[132]
MR 1952, p. 210
[133]
OHS 1956, p. 115
[134]
MR 1952, p.
[135]
OHS 1956, p. vi, nota 16
[136]
MR 1952, p. 247
[137]
MR 1952, p. 336 e ss.
[138]
C. BRAGA, op. cit., p. 18
[139]
J. Card. RATZINGER, "A dieci anni dal motu proprio Ecclesia Dei",
conferenza del 24-10-1998
da "Disputationes
Theologicae", 28 marzo 2010