Messe latine antiche nelle
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Casa di san Pio X a Riese
Al Seminario di Treviso
Parrocchiale di Tombolo
VOGLIA DI TRADIZIONE
Sulle orme di papa Sarto anche in Veneto il tradizionalismo cattolico prende sempre più piede
L'orgoglio dei San Pio X boys per far tornare il prete all'antica
Novanta seminaristi in pellegrinaggio alla casa del pontefice che si oppose al modernismo
di Alessandro Zuin
RIESE PIO X - Padre Michele Simoulin è un autentico soldato di Cristo. Mica per modo di dire: prima di prendere i voti, nel nome di san Pio X da Riese, profondo Veneto, e sotto le insegne di monsignor Marcel Lefebvre, era stato ufficiale di carriera nell'esercito francese. Capitano. Anche dentro la tonaca nera, con la fascia che gli stringe la vita, conserva un aspetto marziale. E quando afferma che "l'ecumenismo, la collegialità e la libertà religiosa sono la corruzione della vera fede", si percepisce che padre Michele sente nel suo intimo di obbedire a un ordine superiore. L'ordine della tradizione, che ha regolato infallibilmente l'esistenza di santa madre Chiesa fino alla modernità inoltrata. Salvo poi scontrarsi e finire sbaragliato da soverchianti forze avversarie durante il Concilio Vaticano II (1962-1965), voluto da Papa Giovanni XXIII. "Già, papa Giovanni...", mormora padre Michele, con una contorsione del viso che dice più di qualunque discorso.
L'abbé Simoulin è il superiore del distretto italiano della Fraternità di San Pio X, la congregazione fondata dal vescovo Lefebvre e considerata la roccaforte del tradizionalismo cattolico, una sorta di isola pre-conciliare che si mantiene salda tra i flutti della secolarizzazione e del modernismo, pur scontando il grandissimo sospetto delle gerarchie ecclesiastiche. È lui, l'ex capitano, a guidare la piccola compagnia di novanta seminaristi lefebvriani che ieri mattina, senza fare troppo rumore in pubblico per non destare attenzioni sgradite, hanno iniziato da Riese Pio X il loro pellegrinaggio di devozione nei luoghi di papa Sarto, "un pilastro della vera fede", luce e guida della Fraternità che ha il suo epicentro ad Econe, nel cantone svizzero del Vallese. Tra loro c'è anche Fredrerich, nato a sette chilometri da Econe. Suo nonno, magistrato vecchio stampo, comprò spendendo di tasca propria il complesso dove oggi è ospitato il seminario, pur di evitare che diventasse una discoteca. E lo regalò a monsignor Lefebvre: al posto della musica dance, tra quelle mura ora risuona il gregoriano.
Vestiti come don Camillo nei film tratti da Guareschi, tonaca nera fino ai piedi e collare romano immacolato (ma qualcuno ha lo zainetto sulle spalle, piccola concessione alla modernità dilagante), gli aspiranti missionari lefebvriani hanno assistito di buon mattino alla messa nel santuario delle Cendrole, una tappa irrinunciabile sulle orme di Pio X. Detta così, sembra una cosa normalissima. Ma la messa, secondo loro, è solo quella che si celebrava prima del famigerato Vaticano II, con il rito "tridentino": l'altare sta in fondo alla chiesa, il celebrante (uno e uno solo) dà le spalle all'assemblea, l'unica lingua utilizzata è il latino. Uno spettacolo, per il profano che è nato dopo il 1962; una pratica tollerata con somma diffidenza, per il corpo ecclesiastico post-conciliare. "Ma con il Vaticano i rapporti adesso sono buoni - assicura il superiore -, noi vogliamo aiutare il papa".
Il problema, caso mai, è che non tutti i fratelli in Cristo vogliono aiutare loro. Semi-clandestini all'interno di santa romana Chiesa fino al Giubileo del 2000 (quando calarono in massa a Roma, impressionando per numero e partecipazione), sdoganati da papa Giovanni Paolo II che vorrebbe riportarli definitivamente sotto l'ala protettrice del Vaticano, i lefebvriani continuano a trovare porte chiuse sul loro cammino. Anche ieri, al seminario vescovile di Treviso - di cui il futuro papa Pio X fu direttore spirituale -, la comitiva di devoti ha ricevuto freddissima accoglienza, con la consegna implicita di non spingersi oltre l'androne d'ingresso e poi, gentilmente, proseguire per la sua strada. Di visitare la stanza che fu di Giuseppe Sarto, neppure a parlarne. Chissà, forse qualcuno temeva che i lefebvriani volessero portarsi via, come cimelio, la rinomata scrivania appartenuta al santo di Riese. Sempre che sia ancora lì.
Alessandro Zuin
da "Corriere del Veneto", 7 maggio 2003
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