Il latino liturgico
patrimonio immateriale
dell'umanità
di don Roberto Spataro
Nella
relazione che sto per presentare, attenendomi al titolo che mi è stato
affidato, svilupperò tre punti. Anzitutto, definirò il concetto di patrimonio
immateriale e lo applicherò alla lingua latina; in secondo luogo, mostrerò
alcune caratteristiche del latino liturgico; infine, presenterò la cosiddetta
"Messa tridentina", comunemente designata anche come "Messa in
latino", che valorizza moltissimo il latino liturgico.
1) Per
definire il concetto di "patrimonio immateriale", vorrei rifarmi ad
un'iniziativa promossa circa due anni e mezzo fa da una benemerita
istituzione culturale italiana, l'Accademia Vivarium
Novum, che, con il sostegno di altri prestigiosi partner europei, ha raccolto
moltissime adesioni perché l'Organizzazione delle Nazioni Unite dichiari la
lingua latina e la lingua greca antica "patrimonio culturale immateriale
dell’umanità". Nella petizione che è stata diffusa, era descritto, pur
se con altre parole, come "patrimonio immateriale dell’umanità" un
qualche bene spirituale intangibile capace di creare una sorta di comunione
diacronica tra gli uomini che ne usufruiscono. Come tutte le ricchezze culturali,
esprime sempre un'esperienza significativa dell'avventura umana sulla terra
che possa toccare l'anima dell'uomo in quanto tale, senza esclusioni e senza
barriere nel tempo e nello spazio.
Appartengono
a questa categoria lingue, non mai e/o non più parlate da nessun popolo, che
hanno svolto nella storia delle idee e della cultura un ruolo fondamentale.
Gli esempi sono numerosi: il sanscrito, soprattutto in India, ha trasmesso
dottrine e speculazioni filosofiche da epoche remotissime fino ai nostri giorni;
l'arabo classico e il persiano medievale ci hanno consegnato le meditazioni
dei mistici sufi e le discussioni dei pensatori che riflettevano con
profondità sui loro testi sacri e sulle opere della filosofia greca; la
lingua ebraica, di recente riportata in vita con la nascita dello stato
d'Israele, ha per quasi due millenni tramandato la sapienza religiosa di una
comunità di credenti dispersa nell'orbe. Queste ed altre lingue, e le civiltà
che esse esprimono, costituiscono un grande patrimonio, che va rispettato,
apprezzato, tutelato. Se disperso e trascurato, tutti diventano più poveri
culturalmente, il che equivale a dire, tutti diventano più poveri di umanità [1].
È a tutti
evidente che il concetto di "patrimonio immateriale", così come
descritto, si applichi alle lingue latina e greca. Chi potrà negare che anche
e principalmente nelle civiltà greca e latina sussistano le radici storiche e
il tesoro inesauribile della memoria comune dell'Europa?
Il latino è
patrimonio immortale dell'umanità perché è la lingua di autori che definiamo
"classici" in quanto, secondo una felice intuizione di Italo
Calvino, ogni volta che entriamo in dialogo con loro, scopriamo sempre
qualcosa di nuovo che si incide nella nostra anima [2]. Sono classici perciò Virgilio, con la
sua dolorosa meditazione delle umane vicende, Seneca che sosteneva che tutti
gli uomini hanno la stessa dignità, Agostino che, nella sua sofferta e pur
serena autobiografia, ha scoperto la psicologia del profondo. Non è
necessario moltiplicare i nomi dei "classici" latini ed il loro
imperituro messaggio. Vorrei, invece, ricordare che, dopo il crollo
dell'Impero Romano d'Occidente, avvenuto nel V secolo in concomitanza con
l'irruzione di nuovi popoli, la lingua latina diventò immortale, mai più
destinata a perire. A partire dal V secolo comunità civili e politiche
scelsero il latino per le conversazioni quotidiane, per l'allacciamento di
relazioni, per la stesura degli atti burocratici, per la composizione di
opere di letteratura, per la celebrazione della preghiera. In tal modo i
popoli europei, dialogando tra loro con l'uso della medesima lingua,
maturavano un unico e medesimo spirito. Scrissero in latino i monaci eruditi
che, maestri alla corte palatina di Carlo Magno, coltivarono gli studi
umanistici ed avviarono un rinascimento delle lettere e delle arti. Tra essi
eccelle Alcuino. In latino composero le loro summae di teologia i pii dottori del
Medioevo per mostrare il modo in cui gli uomini, con argomentazioni
razionali, possono comprendere i misteri della fede cristiana. Ed il nostro
pensiero va al più grande tra essi, Tommaso d’Aquino. In latino Dante
Alighieri, come altri suoi contemporanei, trattò problemi di natura politica.
In latino gli umanisti dei secoli XV e XVI sostennero la grandezza e la
dignità dell'uomo, come Erasmo da Rotterdam, profeta della pace, o Thomas
More martire della giustizia. Usarono il latino gli autori, come Francesco de
Vittoria, il grande filosofo di Salamanca, che rivendicarono i diritti
inviolabili delle popolazioni indigene contrastando l'avidità dei conquistadores. In latino approfondirono temi di
matematica studiosi illustri, quale Giovanni Napier che nel XVI secolo
scrisse un'opera intitolata "Mirifici logarithmorum
canonis descriptio" [3]. Quanti
capolavori di natura letteraria, filosofica, teologica, giuridica,
scientifica, matematica, biologica sono stati composti in questa lingua fino
al secolo XIX! E persino nell'ambito politico, il latino, era la lingua dei
parlamenti, come quello croato e quello ungherese fino al secolo XIX, o la
lingua della corrispondenza di uomini dotti, mercanti, esploratori,
missionari: un enorme patrimonio, davvero universale nel tempo e nello spazio.
2) Negli ambiti
in cui la lingua latina è stata usata eccelle senz'altro la liturgia della
Chiesa Cattolica che ha quasi spontaneamente scelto la lingua di Roma per
elevare la sua preghiera a Dio negli atti più solenni, i sacramenti,
soprattutto la santa Messa, e l'Ufficio divino. Tra le varie cause che hanno
portato a questa felicissima simbiosi tra la preghiera ufficiale della Chiesa
e l'uso del latino, vorrei ricordarne una: il latino è una lingua sacra. Gli
argomenti che adduco per sostenere questa tesi sono cinque.
a)
Anzitutto, le più remote testimonianze dell'uso letterario della lingua,
rinviano ad un contesto rituale, gli antichissimi "carmina" perché
le caratteristiche fonetiche del latino, con la sua alternanza di sillabe
lunghe e brevi, con la sua sonorità robusta, ma mai sgraziata, di consonanti
occlusive, ingentilita dalla frequenza di sibilanti e liquide, lo rende una
lingua poetica e, dunque, la sottrae alla funzionalità della prosa, per
immergerla nella sfera della bellezza, che è il mondo di Dio.
b) Inoltre,
il latino è una lingua "sacra", come ha notato Michael Lang sulla
scorta delle osservazioni di Christine Mohrmann,
perché è immutabile [4]. Il
latino, infatti, nelle sue strutture morfologico-sintattiche si è fissato una
volta per sempre, come ricordavamo, intorno al V secolo d. C., conoscendo
solo un graduale e fecondo arricchimento lessicale.
c) La lingua
sacra, tra l'altro, è disponibile a recepire prestiti da altre lingue per
esprimere realtà sacre, ed il latino liturgico si è mostrato molto duttile in
questo tempo, recependo grecismi ed ebraismi.
d) Infine,
la lingua sacra ha una struttura retorica tipica dell’oralità e che allo
stesso tempo conferisce maestà e bellezza: basta leggere una qualsiasi
orazione del Messale romano per rendersi conto dell'elaborazione retorica,
perfetta nella sua sobrietà: chiasmi, iperbati, allitterazioni, equilibrio
perfetto tra i cola, rispetto delle clausole che danno un ritmo
inconfondibile.
e) C'è
ancora un motivo evidente che fa del latino liturgico una lingua sacra. I
testi liturgici sono plasmati come un'eco ed un approfondimento del testo
sacro per antonomasia, la Bibbia. Per rivolgersi a Dio, infatti, le parole
più appropriate sono quelle che Dio stesso, con la sua rivelazione, mette
sulla bocca dei credenti e degli oranti. Ora, la Chiesa cattolica ha assunto
per la sua vita, per la sua preghiera e per la sua dottrina la Vulgata, ossia
l'edizione latina della Bibbia, diffusa da Gerolamo nel IV secolo e poi
rifatta dopo il Concilio di Trento.
3) E
veniamo così all'ultima parte di questa relazione. Stabilito che il latino è
un patrimonio immateriale dell'umanità e che, tra le sue espressioni, vi sia
il latino liturgico in quanto il latino è una lingua sacra, vorrei affrontare
una domanda che sicuramente è nata in ciascuna di noi: non ha forse la Chiesa
Cattolica abbandonato l'uso del latino nella celebrazione della liturgia, con
l'introduzione delle lingue nazionali, seguita alla riforma liturgica
postconciliare? Il problema è complesso. Presento tre elementi che aiutano ad
affrontare correttamente tale problema.
Anzitutto,
va ricordato che i Padri del Concilio Vaticano II ammisero un uso limitato e
ragionevole delle lingue nazionali che avrebbero dovuto coesistere accanto al
latino [5].
I motivi per i quali questa raccomandazione non sia stata rispettata ma
stravolta saranno chiariti dagli storici.
In secondo
luogo, tutte le editiones typicae dei testi liturgici sono in
latino e i testi in lingue nazionali sono traduzioni dell’originale latino,
operazione molto delicata perché è in gioco la fede della Chiesa, al punto
che la Santa Sede avoca a sé il diritto/dovere di approvarle, prima di
introdurle nella pratica. E sugli infiniti problemi delle traduzioni, vorrei
fare due esempi. Al principio della Messa, sia nella forma ordinaria sia in
quella straordinaria, si recita il Confiteor,
pur se con alcune non irrilevanti variazioni tra l'una e l'altra. Questa
bellissima preghiera si conclude con un appello del fedele alla Chiesa
celeste e a quella militante di pregare a suo favore per ottenere il perdono
dei peccati. In latino si dice: Ideo precor
… orare pro me ad Dominum Deum
nostrum. La
traduzione in lingua italiana dice: "Supplico di pregare per me il
Signore Dio nostro", quella inglese "to pray
for me to the Lord our God".
Eppure, in quel ad seguito
dall'accusativo non è contenuto solamente il significato della direzione
impressa alla preghiera, significato più comune nel tardo latino. Ad e l'accusativo, in dipendenza
di un verbo che non indica movimento, come appunto confiteor,
significano anche e principalmente "alla presenza di". Quando si
recita il Confiteor, insomma, ci mettiamo dinanzi a Dio perché
nella Messa siamo realmente davanti a Lui, come peccatori, tutti quanti, e
invochiamo il suo perdono perché siamo al cospetto di Colui che per
perdonarci ha subito la Passione e la Morte: anche la posizione del
Crocifisso ci aiuta ad assumere questo orientamento interiore. Ancora più
sorprendente la traduzione in lingua italiana delle parole della
consacrazione del Calice. ACCIPITE ET BIBITE EX EO OMNES: HIC EST ENIM CALIX
SANGUINIS MEI NOVI ET AETERNI TESTAMENTI. La traduzione del Messale italiano
dice: "Questo è il sangue per la nuova ed eterna alleanza", un
complemento di fine e non di specificazione. La traduzione è assolutamente
inadeguata: al posto di un genitivo oggettivo-costitutivo (questo è il sangue
che "fa", crea, costituisce la nuova e definitiva alleanza), c'è un
ben più debole complemento "per la nuova ed eterna alleanza". In
questo punto, la lex orandi non
corrisponde più alla lex credendi.
Infine, il
Magistero supremo della Chiesa non ha mai cessato di incoraggiare l'uso della
lingua latina anche nella liturgia rinnovata. In questo senso, l'esempio e
l'insegnamento del Papa emerito, Benedetto XVI, sono stati luminosi.
Tuttavia, vorrei ora proporre delle riflessioni su quella forma di
celebrazione della Messa in cui l’uso della lingua latina è rimasto intatto
ed integrale, la cosiddetta "forma straordinaria" del rito romano,
secondo il Messale dell'anno 1962, che, con il Motu proprio Summorum Pontificum,
è stato restituito alla Chiesa e che un numero di fedeli e di sacerdoti, per
quanto estremamente esiguo rispetto alla maggioranza, ha adottato stabilmente
[6].
La Messa
tridentina - e così possiamo chiamarla - accentua molto la sacralità
dell'azione perché è un atto di fede che potremmo così sintetizzare: Dio è
presente in modo realissimo attraverso la consacrazione delle specie
eucaristiche e nella Messa si rinnova in modo incruento il sacrificio del
Calvario. Di fronte ad un evento tanto sublime, al sacerdote e ai fedeli
viene chiesto di coltivare un atteggiamento di intima e convinta adesione, di
silenziosa adorazione, di umile accoglienza, di preghiera raccolta. La lingua
latina, in quanto lingua sacra, si addice sommamente ad esprimere
quest'atmosfera. Christine Mohrmann, già citata, la
grande storica del latino dei cristiani, afferma che la lingua sacra è un
modo specifico di "organizzare" l'esperienza religiosa. Infatti,
ogni forma di credere nella realtà soprannaturale, nell'esistenza di un
essere trascendente, conduce necessariamente all'adozione di una forma di
lingua sacra nel culto, mentre solo un laicismo radicale porta a respingere
ogni forma di essa. Del resto, quasi tutte le grandi religioni adottano una
lingua diversa da quella dell’uso quotidiano per gli atti di culto. Lo
ricordava anche il Cardinale Ranjith in
un'intervista di qualche anno fa: "L'uso di una lingua sacra è
tradizione in tutto il mondo. Nell'Induismo la lingua di preghiera è il
sanscrito, che non è più in uso. Nel Buddismo si usa il Pali, lingua che oggi
solo i monaci buddisti studiano. Nell'Islam si impiega l’arabo del Corano.
L'uso di una lingua sacra ci aiuta a vivere la sensazione dell'al-di-là"
[7].
In un convegno, tenutosi a Pavia poco più di un anno fa, don Marino Neri,
appassionato cultore della Messa tridentina, ha spiegato che il Latino
introduce meglio al mistero, al momento in cui l'Altro per eccellenza si
comunica sensibilmente a noi. L'alterità, espressa da luoghi, gesti, abiti
"altri", passa anche attraverso il "principe" dei segni,
la parola, che non media solo significati destinati all'intelletto, ma
conduce l'astante al rapporto personale religioso, che si nutre di segni. Si
tratta né più né meno di un principio formulato da san Tommaso d'Aquino, il
teologo che dice le cose più ragionevoli che io conosca: "Ciò che si
trova nei sacramenti per istituzione umana non è necessario alla validità del
sacramento, ma conferisce una certa solennità, utile nei sacramenti a
eccitare la devozione e il rispetto in coloro che li ricevono" [8].
Alla
sacralità del rito tridentino, potentemente ed efficacemente manifestata
dall'uso del latino, lingua ieratica, si aggiungono altre caratteristiche in
armoniosa simbiosi e che rendono la forma straordinaria del rito romano
un’autentica esperienza mistica. Ne ricordo velocemente tre, ben note a
coloro che vi hanno partecipato qualche volta o che abitualmente assistono
alla Messa antica. Anzitutto, l'orientamento ad
Deum, favorito dalla posizione assunta dai
fedeli e dai celebranti che, spezzando il circolo un po' autoreferenziale del
guardarsi reciprocamente, volgono lo sguardo verso il Crocifisso, maestoso e
semplice nel messaggio salvifico che trasmette: il Sangue di Cristo, sparso
cruentemente sul Calvario, viene incruentemente effuso sull'Altare dove si
rinnova il Santo Sacrificio. In secondo luogo, lo spazio dato al silenzio che
avvolge discretamente l'intero svolgimento del rito, dalle apologie del
sacerdote alla recitazione del Canon missae,
per dare risalto alla contemplazione e all'assimilazione intima del
significato dei gesti compiuti e delle parole pronunciate. Infine,
l'importanza della gestualità che, nella logica del simbolo, riassume
l’antropologia cristiana, invitando i fedeli ad essere frequentemente in
ginocchio per riconoscere la loro condizione creaturale di fronte al Creatore
che li ama e li salva, e che nessuna dimensione della vita dell’uomo
tralascia, neppure gli affetti diretti verso quell'Altare, figura eloquente
di Cristo, vittima, sacerdote ed altare, che ripetutamente il sacerdote bacia
delicatamente.
Concludo
con un esempio della bellezza del latino liturgico, porzione non indifferente
di questa lingua "patrimonio immateriale dell’umanità". È una
preghiera che il sacerdote pronunzia sommessamente alla fine della Messa,
prima di impartire la benedizione finale, purtroppo scomparsa nella forma
ordinaria del rito romano. Essa recita in tal modo:
Placeat tibi, sancta Trinitas, obsequium servitutis meae: et praesta; ut sacrificium, quod oculis tuae maiestatis indignus obtuli, tibi sit acceptabile,
mihique et omnibus, pro quibus
illud obtuli, sit, te miserante, propitiabile. Per Christum Dominum nostrum. Amen.
In questa
preghiera Cielo e terra si uniscono nelle parole del sacerdote, la Trinità
invocata al principio della preghiera, i fedeli tutti per i quali il
sacerdote prega e lavora. Si alternano il congiuntivo, placeat,
e l'imperativo, praesta, che sono i modi verbali della preghiera
cristiana: quando parliamo a Dio esprimiamo umilmente una speranza, ed ecco
il congiuntivo, ma osiamo anche chiedere fiduciosi, nel nome del Figlio, ed
ecco l'imperativo. Le richieste sono espresse ordinatamente: anzitutto la
gloria di Dio ed ecco la proposizione ut sacrificium
sit acceptabile, e poi la salvezza delle anime, sit propitiabile, la stessa disposizione dell'Oratio dominica,
del Padre nostro. Le preghiere sono espresse in un elegante parallelismo, ma
esso viene, per così dire, deviato da un ablativo assoluto, cioè da quella
costruzione tipica della lingua latina, che esprime le circostanze che
accompagnano il racconto di un fatto o l'enunciazione di un pensiero.
Quell'ablativo assoluto, che esce dalla struttura parallela, si impone allora
come una luce che illumina tutta la preghiera: te miserante, proprio le parole del motto scelto dal
Papa Francesco. La misericordia delle Tre persone della Santissima Trinità,
il messaggio imperituro del Vangelo che l'attuale Sommo Pontefice ci sta
ricordando incessantemente e che la Messa tridentina, ridonataci da
Benedictus Magnus, ci lascia alla conclusione di ogni sua celebrazione!
__________________________
[1] Cfr. An appeal to Unesco on behalf of the Latin and Greek "heritage of
humanity".
[2] Cfr. I. CALVINO, Perché leggere i classici,
Milano, 1995.
[3] Cfr. R. SPATARO, Hortensius vel
Sapientia veterum a Christifidelibus tradita, Grottaminarda (Av), 2014, p. 81.
[4] U. M. LANG, Il latino come lingua
liturgica del Rito Romano, http://www.internetica.it/Lang-LatinoLinguaLiturgica.htm
[5] Cfr. SACRUM CONCILIUM OECUMENICUM
VATICANUM II, Sacrosanctum Concilium, n. 36 § 1, in Constitutiones, Decreta, Declarationes, cura et studio Secretariae Generalis Concilii Oecumenici Vaticani
II, Typis Polyglottis Vaticanis, 1966, p. 22.
[6] BENEDICTUS XVI, Litterae
Apostolicae motu proprio datae Summorum Pontificum, 7 luglio
2007.
[7] M. POLITI, Liturgia. Perché Ratzinger
recupera il "sacro", in "La Repubblica", 31
luglio 2008, p. 42.
[8] Summa Theologiae III, 64, 2 (Ed. Leonina).
Testo
della conferenza tenuta alla Libera Università di Lingue e Comunicazione
(IULM) di Milano il 12 maggio 2014, pubblicato in Paix Liturgique
it.paix-liturgique.org