Messe latine antiche nelle Venezie
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L'editoriale di Divinitas

Riportiamo l'editoriale della prestigiosa rivista "Divinitas" (2, 2008) sul Motu proprio Summorum Pontificum di papa Benedetto XVI. Divinitas prende posizione a favore della decisione del Santo Padre e la difende con valide argomentazioni. Si esprime apertamente contro "le resistenze vescovili alla parte normativa, per il loro significato eversivo della communio hierarchica". "Non ha senso, pertanto" - afferma l'editoriale -, "se non quello eversivo delle norme papali che dicono esattamente il contrario, la proibizione della Messa di san Pio V a gruppi non stabili, non motivati, o non parrocchiani del parroco al quale la domanda è rivolta". E continua: "né ha senso l'esigere da costoro la capacità provata della comunicazione verbale latina", "è inoltre incomprensibile che un vescovo presuma di sostituirsi alla Santa Sede, avocando a sé la conoscenza e la decisione d'ogni domanda in tal senso".

L'illustrazione del contenuto normativo del documento è alquanto sintetica, e certamente scritta prima dell'uscita del fascicolo degli "Acta Apostolicae Sedis" che contiene il testo ufficiale del Motu proprio, riveduto rispetto alla versione ufficiosa che fino a quel momento si conosceva. Un difetto di approfondimento probabilmente motiva l'affermazione di Divinitas, secondo cui "soltanto il Triduo Sacro è sottratto all'espressione straordinaria della lex orandi (Art. 2)". Al fine di un definitivo chiarimento del punto, riportiamo quanto al proposito annota Riccardo Turrini Vita, presidente di Una Voce Italia, in un suo commento del Motu proprio ("Una Voce Notiziario" n° 29-30 ns, 2008, p. 11):

Fra le norme da ricordare, vi è anche il divieto di messe private durante il Triduo Sacro: poiché nel documento vi si faceva riferimento all’articolo 2, si è voluto sostenere da taluno che ciò vietasse le relative cerimonie nel rito romano antico, ma la notificazione 4 febbraio 2008 della Segreteria di Stato, sulla orazione pro Iudaeis nel Venerdì Santo ha privato di fondamento tale interpretazione.

Pertanto, anche ma non solo alla luce di quanto è avvenuto nel 2008 - quando, tra laltro è stato celebrato col rito antico in molti luoghi, non esclusa Roma -, è assolutamente evidente che le funzioni del Triduo pasquale si possono celebrare nella forma straordinaria, anche se esse sono sempre celebrate con il popolo, quindi hanno sempre carattere pubblico, e come tali sono regolamentate.

Fabio Marino

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"Summorum Pontificum"

Motuproprio di Benedetto XVI sull'uso della Liturgia Romana anteriore alla Riforma del 1970

  

Si tratta d'un Motuproprio, cioè d'un documento papale che, fin dal sec. XV, esprime una diretta concessione del Sommo Pontefice, dotata d'effetti giuridici pubblici a favore di chi ne beneficia [1]. All'interno della Cancelleria Apostolica esso è, dunque, un documento di rilevante importanza, che un buon cattolico mai si permetterebbe d'ignorare. Quello in esame [2] ripete la sua importanza anche dal suo contenuto, intimamente collegato col dogma della reciproca corrispondenza tra la "lex supplicandi" e la "lex credendi" [3]. Riguarda infatti "l'uso della Liturgia romana anteriore alla Riforma del 1970".

Contrariamente ai documenti dell'epoca postconciliare, è breve. Dopo un'introduzione storica a volo d'uccello, fa seguito la parte dispositiva: 12 articoli con i quali si stabilisce il ripristino della S. Messa secondo il Messale romano del 1962, più la conclusione magisteriale e disciplinare: "Tutto ciò che è stato da Noi" espresso "in questo ... motuproprio, ordiniamo che sia considerato come 'stabilito e decretato' e che s'osservi dal giorni 14 settembre del presente anno 2007, festa dell'esaltazione della Santa Croce, nonostante qualunque cosa contraria" (Dato a Roma, presso San Pietro, il 7 luglio 2007, terzo del nostro Pontificato - BENEDETTO PP. XVI).

Se la stringatezza del testo ne agevola la lettura, la chiarezza e la mancanza di quei giri di frase, che trionfaron durante e dopo il Vaticano II, son a tutto vantaggio della sua retta interpretazione. E grande dev'essere stata la gioia non solo di coloro che, un po' offensivamente, furono spesso qualificati, e lo sono tuttora, come nostalgici, ma anche dei fedeli più semplici e più buoni che, pur adeguandosi alla Riforma del 1970, non compresero mai perché s'impedì loro di continuar a pregare come avevano sempre fatto, essi, i loro antenati e le generazioni che li avevano preceduti.

Riflettendo, inoltre, sul mai ufficiale ostracismo contro la Liturgia tradizionale, è facile rendersi conto che:

a. l'abbandono di essa avvenne per l'imporsi surrettizio di "correnti di corridoio" e non per una decisione né del Vaticano II, né della Santa Sede;

b. un siffatto accantonamento non avrebbe potuto verificarsi per una scelta della suprema Autorità (Sommo Pontefice - Concilio Ecumenico) senza provocare con essa un'inspiegabile rottura con la veneranda e secolare tradizione liturgica della Chiesa, che, con san Gregorio Magno, aveva ufficializzato la Liturgia in uso nell'Urbe, estendendola a tutta la cristianità;

c. proprio attraverso codesta Liturgia romana, del resto mai abolita nemmeno dopo che le fu preferita la nuova "institutio", la coscienza cattolica e la Chiesa stessa espressero il più alto e più nobile culto latreutico a Dio "a onore e gloria del suo Nome";

d. infine, un'eventuale abolizione della Liturgia tradizionale avrebbe fatalmente dissociato la "lex supplicandi" dalla "lex orandi", per lunghi secoli congiunte insieme dalla Liturgia romana al fine d'armonizzar il credere al pregare e viceversa.

Sì, un cattolico vero non può non aver gioito e non continuar a gioire "con animo grato e fiducioso" per l'uscita dall'equivoco, grazie al motuproprio di Benedetto XVI. Eppure, qualcuno o ha fatto l'orecchio del mercante, o ha apertamente disapprovato. Dispiace e non poco. Soprattutto dispiace che le resistenze sian venute da alcuni vescovi, da coloro cioè che la logica intrinseca del loro ufficio e la pienezza del sacerdozio "pongono sul candelabro", perché tutti ne sian illuminati (Mt 5,15; Lc 11,33). E dire che, nella lettera d'accompagnamento, Benedetto XVI proprio ai "fratelli nell'episcopato" s'era rivolto sia per accelerare "una riconciliazione interna nel seno della Chiesa", sia per scongiurare sul nascere il timore d'un "vulnus" al Vaticano II e alla sua riforma liturgica, nonchè quello di possibili "spaccature" nelle comunità parrocchiali. Protagonismo? Arbitrio? Prepotere? Meglio non giudicare. Colpisce, tuttavia, la mancanza di serie motivazioni e la frantumazione della tanto declamata "communio hierarchica".

Un'attenta lettura delle disposizioni emanate dai vescovi contrari rileva o l'incomprensione del testo papale, o la formale contrapposizione al medesimo.

a. Sul piano storico, il testo richiama l'operato dei Papi che ebbero una parte importante e significativa nella promozione del culto divino; una menzione speciale è riservata, oltre che al già ricordato san Gregorio Magno, anche a san Pio V. La loro opera portò ad un sempre più perfetto ordinamento del culto e all'universalizzazione della Liturgia romana. Subito dopo son pure ricordati Clemente VIII, Urbano VIII, san Pio X, Benedetto XV, Pio XII e il beato Giovanni XXIII [4], come coloro che operarono efficacemente perché "l'edificio liturgico...'apparisse di nuovo splendido per dignità ed eleganza'" [5].

Un richiamo a papa Wojtyła ha lo scopo di ricordarne l'indulto del 1984 ed il motuproprio del 1988, con cui veniva concesso l'uso, a determinate condizioni, del Messale Romano, edito nel 1962 dal beato Giovanni XXIII.

La parte storica si conclude con l'accenno ai motivi della nuova concessione: le "insistenti preghiere" d'alcuni fedeli, il parere emerso dal Concistoro del 23 marzo 2006, l'attenta valutazione del problema, l'invocazione allo Spirito Santo. Qualunque eccezione su questa parte storica non potrebbe che apparire infondata o arbitraria. Di fatto, le resistenze si son maggiormente rivolte contro la parte normativa.

Questa s'apre con una distinzione tra "il Messale Romano promulgato da Paolo VI" e quello "promulgato da san Pio V e nuovamente edito da Giovanni XXIII": l'uno è detto "espressione ordinaria della lex orandi", l'altro "espressione straordinaria", ma pienamente "lecita" anche perché "mai abrogata" (Art. 1).

Ad ogni prete "di rito latino, sia secolare sia religioso", celebrando privatamente, è data facoltà di scelta tra "l'espressione ordinaria e quella straordinaria, senza necessità di speciali permessi né dalla Santa Sede, né dal proprio Ordinario". Soltanto il Triduo Sacro è sottratto all'espressione straordinaria della lex orandi (Art. 2).

Tale scelta è estesa ai Religiosi di qualunque tipo, sporadicamente o permanentemente, fatte salve le disposizioni particolari dei vari Istituti (Art. 3).

Gli stessi "fedeli" potran "chiedere di spontanea volontà" l'antico rito in occasione di Messe celebrate con il popolo (Art. 4).

Il parroco deve anzi accogliere di buon grado tali richieste per Messe feriali e festive, in occasione di matrimoni, esequie e pellegrinaggi. "Nelle feste", tuttavia, non potrà esserci che una "sola celebrazione di questo tipo" ed ai preti celebranti è richiesta la piena idoneità. Nelle chiese non parrocchiali, a concederne la licenza sarà il rettore (Art. 5).

Le letture delle Messe con popolo "si posson proclamare nella lingua parlata", usando edizioni approvate (Art. 6).

All'Ordinario del luogo si ricorre contro un eventuale rifiuto; alla Commissione Ecclesia Dei, se anche l'Ordinario rifiuta (Art. 7).

La stessa, in tal caso, darà "consiglio e aiuto" all'Ordinario (Art. 8).

È poi data licenza d'usar il rituale antico: ai parroci, per l'amministrazione dei sacramenti; ai Vescovi, per l'amministrazione della Cresima. Per la recita del Breviario, i chierici ordinati son autorizzati ad usare l'edizione del 1962 (Art. 9).

Per la celebrazione della Messa secondo il rito antico l'Ordinario può erigere una parrocchia personale o nominare un cappellano (Art. 10).

La Commissione Ecclesia Dei "continua a svolgere il suo compito" secondo le competenze ad essa attribuite dal Romano Pontefice (Art. 11).

Quanto all'osservanza ed applicazione delle suddette norme, "la stessa Commissione eserciterà l'autorità della Santa Sede" (Art. 12).

Le resistenze vescovili alla parte normativa, per il loro significato eversivo della "communio hierarchica", son molto più gravi di quelle che fossero eventualmente emerse sul piano storico. Non diciamo che il documento sia in tutto ineccepibile [6]; diciamo che alla coscienza veramente cattolica e sopratutto alla responsabilità pastorale dei vescovi è preclusa la strada della contrapposizione. Non ha senso, pertanto, se non quello eversivo delle norme papali che dicono esattamente il contrario, la proibizione della Messa di san Pio V a gruppi non stabili, non motivati, o non parrocchiani del parroco al quale la domanda è rivolta; né ha senso l'esigere da costoro la capacità provata della comunicazione verbale latina; è inoltre incomprensibile che un vescovo presuma di sostituirsi alla Santa Sede, avocando a sé la conoscenza e la decisione d'ogni domanda in tal senso. L'autosostituzione alla Santa Sede è giunta al punto di proibire con atti ufficiali "in tutto il territorio diocesano" la celebrazione di Messe nel rito preconciliare. In Europa e nel mondo sono state emanate disposizioni vescovili che annullano o deformano la volontà del Santo Padre. Sono una decina i vescovi italiani e qualche cardinale di Santa Romana Chiesa che si son presi la libertà di dire no, in forma più o meno scoperta, al Papa. E si tratta di notizie raccolte e raccolte dall'agenzia vaticana "Fides".

Abbiam detto di non voler giudicare; sono i fatti stessi, però, che metton in evidenza vescovi o terribilmente digiuni di teologia, o vogliosi ben al di là e al di sopra del loro ruolo.

 La Direzione

 

 


 

[1] BATTELLI G. Motu Proprio, in EC VIII, c. 1487.

[2] Di cui si veda il testo italiano in "La Civiltà Cattolica" 2007 III 517-520.

[3] S. CELESTINO I, Capitula ps. Coelestina, seu Indiculus 8, in DS 246; COMMISSIO DE RE BIBLICA, Litt. 20 Aug. 1941, in DS 4792; PIO XII; Litt. Enc. Divino afflante Spiritu, 30 sept. 1943, in DS 3828; cf LEONE XIII, Ep. Apostolicae curae, 13 sept. 1896, in DS 3317a.

[4] Spiace la reticenza sul nome del beato Pio IX, del quale son noti gli sforzi per il riassetto non soltanto della partecipazione ai sacramenti della Confessione e dell'Eucarestia, dando in tal modo una connotazione antigiansenistica alla sua azione. Qualcuno (cf. MARTINA G., Pio IX 1851-1866, Roma 1986, p. 706), ha rilevato in Pio IX "l'assenza d'un autentico senso liturgico", documentando tale rilievo con il dettato del Sinodo di Rouen (1850, Coll. Lac. IV, 521), approvato da Roma: "A melodiis et symphoniis, quae nostris in Ecclesiis aliquando audiuntur, mulieres sedulo arceantur ... Numquam intra Missarum sollemnia, vel quodcumque officium proprie dictum, cantica in vernacula lingua audiantur". Strano: che "l'autentico senso liturgico" consista nella partecipazione delle donne al canto sacro e nell'assenza dei canti in vernacolo durante la santa Messa ?!?

[5] Il testo rimanda a san PIO X, Motuproprio "Abhinc duos annos", 23 ott. 1913, in AAS 5 (1913) 449-450, ed a GIOVANNI PAOLO II, Lett. Ap. "Vicesimus quintus annus", 4 dic. 1988, 3 in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XI/4, Città del Vaticano 1991, 1.746.

[6] P. es., troviamo una certa incongruenza tra la Liturgia tradizionale come "forma straordinaria della lex orandi" e la norma che la permette "spesso o abitualmente o permanentemente": l'abituale e permanente non è affatto straordinario.

 

da "Divinitas" 2 (2008), p. 127-132

 

 

 

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Inserito il 28 novembre 2008

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