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"UNA VOCE"
di Cristina Campo
Esistono ormai in
vari paesi associazioni così chiamate, "Una voce",
il cui scopo è di salvare la liturgia tradizionale,
latina e gregoriana. Esse sono nate non perché sia stata
imposta una liturgia volgare ma perché è stata tolta
nei luoghi dove era capita e amata quella tradizionale.
Perché tanta instancabile insistenza? Perché, se le
Costituzioni conciliari non lo esigono, anzi,
espressamente prescrivono il mantenimento delle
tradizioni?
Il latino
È ben difficile
condividere l'atteggiamento di chi procede a una
abolizione di celebri cori (come la "Paulist"
di Chicago) e quindi a un'opera di smantellamento di
istituzioni liturgico-musicali che forse non si potranno
ricostituire mai. È, né più né meno, come se si
cominciasse ad alterare le cattedrali, da Chartres a
Compostella, per "rammodernarle", anzi, come se
addirittura si demolissero, con la scusa che i fedeli per
lo più non sono in grado di valutare il significato
delle statue ed i pregi architettonici.
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Forse che il
fedele comune "capisce" i quadri celebri?
Dopo la costituzione
dell'associazione "Una voce" in Francia (con
sede in rue de Grenelle 109, Parigi VII) altre se ne sono
aggiunte: la "Latin Mass Society" in
Inghilterra, la "Una voce Bewegung" in Germania,
una branca scozzese, una svizzera, una austriaca, una
belga ed ora una italiana.
È uscita in Francia
presso le edizioni Spes un'opera di Bernadette Lécureux,
Le latin langue d'Église, dove sono esposti i
princìpi ai quali questi vari movimenti si ispirano.
Essa porta come epigrafi:
"Il latino, per
diritto e merito acquisiti, dev'essere chiamato ed è la
lingua propria della Chiesa" (san Pio X, Vehementer
sane, 1° luglio 1908).
"Sarebbe
superfluo rammentare ancora una volta che la Chiesa ha
dei gravi motivi di mantenere fermamente nel rito latino
l'obbligo incondizionato per il celebrante di usare la
lingua latina" (Pio XII, allocuzione del 22
settembre 1956).
"Abbiamo deciso
di prendere le misure opportune affinché l'uso antico e
ininterrotto del latino sia mantenuto pienamente e
ristabilito dove sia caduto in desuetudine" (Giovanni
XXIII, Costituzione Veterum sapientia, 22 febbraio
1962).
Ci vengono anche alla
mente le parole del regnante Pontefice. "...
Desiderosi come siamo di avere sempre nella nobile e
santa Famiglia benedettina la custode fedele e gelosa dei
tesori della tradizione cattolica, e soprattutto la
scuola e l'esempio della preghiera liturgica... nelle sue
forme più pure, nel suo canto sacro e genuino, e per il
nostro ufficio divino nella sua lingua tradizionale, il
nobile latino" (SS. Papa Paolo VI nell'occasione
della consacrazione della chiesa dell'Archicenobio di
Montecassino, 24 ottobre 1964).
Chi voglia rileggersi
"L'Osservatore Romano" del marzo 1962 potrà
vedere come Giovanni XXIII facesse proprie le parole di
Pio XI : "La Chiesa che raggruppa
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nel suo seno tutti
i popoli e che è chiamata a durare fino alla fine dei
secoli e che esclude dal proprio reggimento ogni
demagogia, esige per sua natura una lingua che sia
universale, immutevole e non volgare".
La Costituzione
conciliare ribadisce che l'uso del latino è la norma.
Le traduzioni
Le traduzioni che si
sono fatte finora sono tutte inadeguate anche dal solo
punto di vista della correttezza: lo notava un nostro
eminente sociologo, Camillo Pellizzi, sul "Corriere
della Sera" del 19 aprile, indicando i motivi per i
quali un rito non è oggetto di pura comprensione
razionale, sicché la traduzione non ha nemmeno una scusa
strettamente sociologica.
È vero che il latino
non è la lingua dei Vangeli né delle allocuzioni del
Cristo, ma, come fa notare la Lécureux, "forse che
il fatto che i testi preziosi hanno già subito molte
traduzioni prima di fissarsi nel latino è un buon motivo
per farne altre alla leggera? Se aveste in casa degli
oggetti fragili e preziosi, rimasti indenni dopo
trasporti e traslochi, forse che li maneggereste senza
precauzione?".
Il latino non è l'unica
e sola lingua canonica ma è quella che la storia ci ha
affidata ne varietur.
Il processo seguito
da tutte le religioni è di manifestarsi nella lingua del
momento, per poi non variare mai più perché deve
restare intangibile il momento dell'annuncio unico,
fissato dalla Provvidenza.
Come scrive il
Godefroy nel Dictionnaire de théologie catholique:
"Quintiliano ci informa che i canti dei sacerdoti
Salii erano a malapena compresi dai sacerdoti stessi...
Il siriaco liturgico, il greco liturgico, lo slavonico
liturgico sono quasi inaccessibili al popolo quanto da
noi il latino. Gli Ebrei celebrano il loro culto in
ebraico, ben lontano dallo yiddisch".
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Del resto il Concilio
di Trento decise di restar fedele al latino, nonostante
che i protestanti avessero tradotto nelle ligue volgari
gli uffici, a ragion veduta. Come scrive il teologo
Martimort, citato dalla Lécureux: "Presso i
protestanti l'adozione del volgare è più che una pura e
semplice questione di apostolato: essa mette in questione
il dogma stesso: la Messa ed i Sacramenti non hanno per
loro valore ex opere operato, hanno soltanto l'efficacia
d'una predica e perciò diventano del tutto inutili se
questa predicazione non è capita".
Protezione
Oltre a questo motivo
il latino va mantenuto come cemento d'unità e, per
citare la Mediator Dei di Pio XII, come "protezione
efficace contro ogni corruzione della dottrina originaria".
Nelle versioni correnti le adulterazioni dottrinarie
ammannite ai poveri fedeli dalle traduzioni infedeli non
si contano. La concisione, la immediatezza del latino non
sono riproducibili.
Padre Roquet ha
scritto: "Non basta capire la lingua
liturgica, bisogna capirne il linguaggio, che è
biblico, ieratico, misterioso... Se domani si celebrasse
la liturgia in un linguaggio immediatamente intelligibile
e familiare ai nostri fedeli, non sarebbe più una
liturgia, una celebrazione, una comunione del sacro e del
misterico, ma un insieme di banalità e di asserzioni
terra terra che non avrebbero il più lontano rapporto
con il messaggio cristiano".
Infatti la filologia
insegna che un linguaggio non è soltanto comunicazione,
ma anche espressione e la preghiera è per sua natura
soprattutto espressione e non pura comunicazione. La
celebre latinista Mohrmann ha dimostrato d'altronde che
fin dall'inizio il latino liturgico era di tono alto e
diverso dalla parlata popolare. Dunque la distanza dalla
lingua d'ogni giorno è segnata fin dall'inizio e fino a
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oggi è rimasta. Né meglio si potrebbero esprimere tutti
questi motivi che nelle parole di Giovanni XXIII, la cui
memoria andrebbe coltivata seriamente, rileggendosi i
suoi scritti, ad esempio Jucunda laudatio, dove
proclamava il latino lingua ineliminabile della liturgia,
cui anche i più umili avrebbero potuto accedere grazie
ai manuali bilingui e alla catechesi liturgica.
Esiste una vasta
letteratura scientifica accanto alle dichiarazioni dei
pontefici intorno alla questione: segnaliamo Franz Cumont,
Pourque le latin fut la seule langue liturgique de l'Occident
(Bruxelles, 1904) e Christine Mohrmann, Liturgical
latin (Washington, 1957).
Segnaliamo anche una
rivista musicale che si pubblica a Roma: "Cappella
Sistina", sul cui ultimo numero un eminente
musicista, Monsignor Celada, ha ribattuto frase per frase
le tesi di chi vorrebbe la rovina d'una tradizione
venerata. Dopo questa sua dimostrazione impeccabile quale
ragione di gioia non sarebbe una riconciliazione
caritatevole in nome delle verità così
inoppugnabilmente indicate?
da B. TREVISANO, "Una voce", in
«Il Giornale d'Italia«,
4 maggio 1966, p. 3, ripubblicato in C. CAMPO, Sotto falso nome,
II ed., a cura di M. FARNETTI, Milano, Adelphi, 1998,
pp. 119-123.
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