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Dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico > Tempo pasquale > Lunedì di Pasqua

 

 

L'anno liturgico

di dom Prosper Guéranger

 

LUNEDÌ  DI  PASQUA

PASQUA LA SERA                                                                 MARTEDÌ DI PASQUA

 

 

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LUNEDÌ  DI  PASQUA

 

Il mistero della Pasqua è così vasto e profondo che non saranno troppi i sette giorni di questa settimana per meditarlo e approfondirlo. Nella giornata di ieri non abbiamo fatto altro che contemplare il nostro Redentore uscito dal sepolcro, manifestandosi per ben sei volte ai suoi cari col suo potere e per sua bontà. Continueremo a rendergli gli omaggi di adorazione, di riconoscenza e di amore ai quali ha diritto per questo trionfo che è suo e nostro nel medesimo tempo; ma dobbiamo anche penetrare rispettosamente l'insieme meraviglioso della dottrina e dei fatti di cui la Risurrezione del nostro divin Liberatore è il centro, affinché la luce celeste ci illumini ancor meglio e la nostra gioia cresca sempre di più.

Il mistero dell'Agnello.

Prima di tutto, che cosa è, dunque, il mistero della Pasqua? La Bibbia ci risponde che la Pasqua è l'immolazione dell'Agnello. Per comprendere la Pasqua bisogna aver capito il mistero dell'Agnello.

Fin dai primi secoli del cristianesimo nei mosaici e nelle pitture murali delle Basiliche si rappresentava l'Agnello come il simbolo che riuniva in sé l'idea del sacrificio di Cristo e quella della sua vittoria. Nella sua posa piena di dolcezza, l'Agnello esprimeva la dedizione che lo ha condotto a dare il suo sangue per la salvezza dell'umanità; ma veniva dipinto in piedi, in cima ad una collinetta verdeggiante, mentre i quattro fiumi del paradiso, al suo comando, scaturivano sotto i suoi piedi, raffigurando i quattro Vangeli che hanno portato la dottrina della sua gloria ai quattro punti cardinali del mondo. Più tardi fu dipinto armato di una croce, dalla quale sventolava una bandieruola trionfale: è la forma simbolica sotto cui lo troviamo anche ai tempi nostri.

L'Agnello nell'Antico Testamento.

Dopo il peccato, l'uomo non poteva più fare a meno dell'Agnello; senza di esso si vedeva diseredato per sempre dal cielo ed esposto eternamente al divino cruccio. Nei primi giorni del mondo,

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il giusto Abele sollecitava la clemenza del Creatore irritato, immolando sopra un altare, formato da una zolla erbosa, il più bell'agnello del suo gregge, fino a che, agnello egli stesso, cadde sotto i colpi del fratricida, divenendo così il tipo vivente del nuovo agnello che, pure, dai suoi fratelli fu messo a morte.

In seguito, Abramo, sulla montagna, consumò il sacrificio iniziato dalla sua eroica obbedienza, immolando il montone la cui testa era circondata di spine ed il cui sangue si sparse sull'altare eretto per Isacco. Più tardi Dio parlò a Mosè: gli rivelò la Pasqua e questa pasqua consisteva, allora, nell'immolazione di un agnello e nel banchetto che si teneva per mangiarne la carne. La Santa Chiesa, in questi ultimi giorni, ci ha dato a leggere nel libro dell'Esodo il comando del Signore su tale soggetto. L'Agnello pasquale doveva essere senza macchia: si doveva spargere il suo sangue, e nutrirsi della sua carne. Tale era la prima Pasqua.

Essa è piena di figure, ma vuota di realtà. Nondimeno durante quindici secoli, il popolo di Dio dovette accontentarsene; ma l'ebreo che viveva più spiritualmente sapeva ben riconoscere l'impronta misteriosa di un altro Agnello.

Il vero Agnello.

Giunta la pienezza dei tempi, Dio inviò il suo Figliuolo sulla terra. Il Verbo incarnato, che non si era ancora manifestato agli uomini, un giorno camminava sulle rive del Giordano: Giovanni Battista lo indicò ai discepoli dicendo: "Ecco l'Agnello di Dio, che toglie il peccato dal mondo".

Il santo Precursore in quel momento annunziava la Pasqua, poiché avvertiva gli uomini che, finalmente, la terra possedeva il vero Agnello, l'Agnello di Dio, atteso da tanto tempo. Ecco, era venuto, questo Agnello, più puro di quello di Abele, più misterioso di quello di Abramo, più esente da ogni macchia di quello che gli Israeliti offrivano in Egitto. È veramente l'Agnello implorato, con tanta insistenza da Isaia; un Agnello mandato dallo stesso Dio; in una parola l'Agnello di Dio. Ancora qualche tempo e verrà immolato. Tre giorni fa abbiamo assistito al suo sacrificio; abbiamo visto la sua pazienza, la sua dolcezza sotto il coltello che lo uccideva e noi siamo stati bagnati dal suo sangue che ha lavato tutti i nostri peccati.

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Virtù del sangue dell'Agnello.

L'effusione di questo sangue rigeneratore era necessaria alla nostra Pasqua; bisognava che noi ne fossimo segnati, per sfuggire alla spada dell'Agnello; nello stesso tempo, questo sangue ci comunicava la purezza di colui che ce la elargiva con tanta liberalità. I nostri neofiti uscivano dal fonte, nel quale egli immette la sua virtù, più bianchi della neve ; ed anche i peccatori, che avevano avuto la sciagura di perdere la grazia, un tempo in esso acquistata, avevano ritrovato, per mezzo dell'inesauribile forza del sangue divino, la loro integrità primitiva. Tutta la comunità dei fedeli si rivestiva dell'abito nuziale; e questa veste era di uno splendore abbagliante poiché è "nel sangue stesso dell'Agnello che fu lavata" (Apoc. 7, 14).

Il banchetto pasquale.

Ora questa veste è stata preparata per presenziare ad un banchetto, nel quale ritroveremo ancora quell'Agnello. È lui stesso che si da ai fortunati convitati quale nutrimento; e il banchetto è la Pasqua. Gli Atti dell'Apostolo sant'Andrea così ne parlano: "La carne dell'Agnello senza macchia serve di nutrimento, il suo sangue serve di bevanda al popolo che crede in Cristo; ed anche immolato, questo Agnello è sempre intero e vivente".

Ieri questo convito ha avuto luogo su tutta la terra; ma in questi giorni continua ancora e vi realizziamo una stretta unione con l'Agnello che s'incorpora a noi per mezzo di quel cibo divino.

La regalità dell'Agnello.

Ma c'è dell'altro: esso non viene solamente per essere immolato, per nutrirci della sua carne divina; viene forse per comandare, per essere Re? Sì, così è, ed una volta ancora, per questo, è la nostra Pasqua. La Pasqua è la proclamazione del regno dell'Agnello: è il grido degli eletti nel cielo: "Ha vinto il leone della tribù di Giuda la radice di Davide!" (Apoc. 5, 5).

Ma se è il Leone, come può essere l'Agnello? Cerchiamo di comprenderne il mistero. Nel suo amore per l'uomo che aveva bisogno di essere riscattato, di essere fortificato con un nutrimento ce-

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leste, si è degnato di mostrarsi quale Agnello; ma doveva anche trionfare dei suoi nemici e dei nostri; era necessario che egli regnasse, poiché "a lui fu dato ogni potere in cielo e sulla terra" (Mt. 28, 18). Nel suo trionfo, nella sua forza invincibile, è quale leone, a cui nulla resiste, ed i cui ruggiti di vittoria scuotono oggi l'universo. Ascoltate sant'Efrem: "All'ora duodecima lo staccarono dalla croce come un leone addormentato" [1]. Dormiva, il nostro leone; "Il riposo effettivamente è stato così breve - dice san Leone - che si sarebbe detto piuttosto un sonno che una morte" [2].

Che cos'era allora se non la realizzazione dell'oracolo di Giacobbe sul suo letto di morte, quando, annunciando duemila anni prima, la dignità del suo nobile rampollo, esclamava con santo entusiasmo: "Giovane leone è Giuda... Si piega, si sdraia come un leone e come una leonessa: chi lo farà alzare?" (Gen. 49, 9).

Oggi egli si è risvegliato da se stesso: si è alzato in piedi, quale agnello, per noi, leone per i suoi nemici, unendo, d'ora in avanti, la forza e la dolcezza. È il mistero completo della Pasqua: un Agnello trionfatore, ubbidito, adorato. Rendiamogli l'omaggio dovutogli e, aspettando di unire in cielo le nostre voci a quelle di milioni di angeli e dei ventiquattro vegliardi, ripetiamo fin da oggi sulla terra: "È degno l'Agnello che è stato immolato di ricevere la virtù e la divinità, e la sapienza e la fortezza e l'onore e la gloria e la benedizione" (Apoc. 5, 12).

La grandiosità di questa settimana.

La Chiesa di altri tempi dedicava tutti i giorni di questa settimana all'astensione del lavoro come se si fosse trattato di un'unica festa; ed i lavori manuali ne restavano interrotti durante il corso. L'editto di Teodosio, nel 389, che sospendeva l'azione dei tribunali durante questo periodo, veniva ad aiutare tale prescrizione liturgica che noi troviamo menzionata nelle prediche di sant'Agostino e nelle omelie di san Giovanni Crisostomo. Quest'ultimo, parlando ai neofiti, così si esprimeva: "Durante questi sette giorni voi godete dell'insegnamento della dottrina divina; l'assemblea dei cristiani si riunisce per voi, noi vi ammettiamo alla sacra mensa; in questo modo vi armiamo e vi esercitiamo alle lotte contro il demonio. Poiché adesso, che si prepara ad attaccarvi con maggior furore, più è gran-

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de la vostra dignità e più vivo sarà il suo attacco. Mettete dunque a profitto i nostri insegnamenti durante questo intervallo e sappiate imparare a lottare valorosamente. Riconoscete pure in questi sette giorni il cerimoniale delle nozze spirituali che avete avuto l'onore di contrarre. La solennità delle nozze dura sette giorni; noi abbiamo voluto, durante questo stesso periodo, trattenervi nella stanza nuziale" [3].

Tale era allora lo zelo dei fedeli, la loro attrazione per le solennità della Liturgia, l'interesse che portavano per le nuove reclute della Chiesa, che essi aderivano con premura ed erano assidui a tutto ciò che da loro si esigeva durante questa settimana.

La gioia della Risurrezione riempiva tutti i cuori e occupava ogni momento. I Concili emanarono dei Canoni che erigevano in legge questa consuetudine. Quello di Macon, nel 585, così formulava il suo decreto: "Noi dobbiamo tutti celebrare e festeggiare con zelo la Pasqua, nella quale il Sommo Sacerdote e Pontefice è stato immolato per i nostri peccati, e dobbiamo onorarlo mediante l'esattezza nell'osservare le prescrizioni che essa impone. Nessuno, dunque, si permetterà alcuna opera servile durante questi sei giorni (che seguono la domenica); ma tutti si riuniranno per cantare gl'inni della Pasqua, assistendo assiduamente al Santo Sacrificio quotidiano e radunandosi per lodare il nostro Creatore e Rigeneratore, la sera, il mattino e a mezzogiorno" [4].

I Concili di Magonza (813) e di Meaux (845) danno le medesime prescrizioni. Noi le ritroviamo in Spagna nel VII secolo, negli editti dei Re Recesvinthe e Wamba. La Chiesa Greca li rinnovò nel suo concilio in Trullo; Carlo Magno, Luigi il Pio, Carlo il Calvo lo sanzionarono nelle loro costituzioni; i canonisti dei secoli XI e XII, Burkard, sant'Ivo di Chartres e Graziano ce li dimostrano in uso ai loro tempi; finalmente Gregorio IX provò ancora a dar loro forza di legge in una delle sue Decretali del XIII secolo. Ma già in molti luoghi questa osservanza si era indebolita.

Il concilio tenuto a Costanza nel 1094 riduceva la solennità della Pasqua al lunedì e martedì. I liturgisti Giovanni Beleth, nel XII secolo, e Durando nel XIII, attestano che, ai tempi loro, questa riduzione era già in uso presso i Francesi. Essa non tardò ad estendersi in tutto l'Occidente e costituì il diritto comune per la celebrazione della Pasqua, fino a che, essendosi sempre accresciuto il rilassamento, si ottenne successivamente dalla sede Apostolica la dispen-

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sa dall'obbligo festivo del martedì e, in Francia, anche del lunedì, dopo il Concordato del 1801.

Per arrivare alla comprensione della Liturgia fino alla Domenica in Albis, è dunque necessario ricordarsi costantemente dei neofiti, sempre presenti con le loro vesti bianche alle Messe ed agli Offici divini. Le allusioni alla loro recente rigenerazione son continue e tornano senza tregua nei canti e nelle letture durante tutto il corso di questa Ottava solenne.

La Stazione.

A Roma la Stazione di oggi è alla Basilica di S. Pietro. Iniziati ai divini misteri sabato scorso nella Basilica del Salvatore, al Laterano, i neofiti ieri celebrarono la Risurrezione del Figlio nello splendido santuario della Madre; è giusto che in questo terzo giorno essi vengano a rendere omaggio a Pietro, sul quale poggia tutto l'edificio della Santa Chiesa. Gesù, Salvatore; Maria, Madre di Dio e degli uomini; Pietro, capo visibile del corpo mistico del Cristo: queste sono le tre manifestazioni per mezzo delle quali noi siamo entrati e restiamo nella Chiesa Cristiana.

MESSA

EPISTOLA (Atti 10, 37-43). - In quei giorni Pietro, stando in mezzo al popolo, disse: "Fratelli miei: Voi sapete quel che è avvenuto per tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il Battesimo predicato da Giovanni; come Dio unse di Spirito Santo e di potenza Gesù di Nazaret, il quale andò attorno facendo del bene e sanando tutti gli oppressi dal diavolo, perché Dio era con lui; e noi siamo testimoni di quanto egli fece nel paese dei Giudei e in Gerusalemme; ma l'uccisero appendendolo alla croce. Dio però lo risuscitò il terzo giorno e fece che si rendesse visibile, non a tutto il popolo, ma ai testimoni preordinati da Dio: a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti. E ci ha comandato di predicare al popolo e di attestare come egli da Dio è stato costituito giudice dei vivi e dei morti. A lui rendon testimonianza tutti i profeti, asserendo che chi crede in lui ottiene, per il nome suo, la remissione dei peccati".

Missione di Cristo e degli Apostoli.

San Pietro rivolse questo discorso al centurione Cornelio ed ai parenti ed amici di detto pagano; egli li aveva riuniti attorno a sé per ricevere l'Apostolo che Dio gli mandava. Si trattava di preparare

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tutto questo uditorio a ricevere il Battesimo ed a formare le primizie del Gentilismo, poiché fino allora il Vangelo non era stato annunziato che agli Ebrei. Rimarchiamo che è San Pietro, e non un altro Apostolo, ad aprire oggi a noi Gentili le porte di quella Chiesa che il Figlio di Dio ha fondato su di lui, come su di una roccia incrollabile. Ecco perché questo brano del libro degli Atti degli Apostoli si legge proprio oggi nella Basilica di S. Pietro, presso il luogo della sua crocifissione, e in presenza dei neofiti che sono altrettante conquiste della fede sugli ultimi seguaci dell'idolatria pagana.

Osserviamo poi il metodo usato dall'Apostolo per inculcare la verità del cristianesimo a Cornelio ed a quelli della sua casa.

Comincia a parlar di Gesù Cristo; ricorda i prodigi che hanno accompagnato la sua missione; poi, avendo raccontato la sua morte ignominiosa sulla croce, espone il fatto della Risurrezione dell'Uomo-Dio, come la più grande garanzia della verità della sua divina natura. Viene in seguito la missione degli Apostoli che deve essere accettata, allo stesso modo della loro testimonianza così solenne e così disinteressata, visto che essa non ha procurato loro che delle persecuzioni.

Colui dunque che confessa il Figlio di Dio incarnato, che è passato in questo mondo, facendo il bene, operando ogni sorta di prodigi, morendo sulla croce, risuscitando dalla tomba, e affidando agli uomini che ha scelto la missione di continuare sulla terra quel ministero che egli ha cominciato; colui che confessa tutta questa dottrina è pronto a ricevere, nel Battesimo, la remissione dei suoi peccati.

Tale fu la sorte fortunata di Cornelio e dei suoi compagni; tale è stata quella dei nostri neofiti.

VANGELO (Lc. 25, 13-35). - In quel tempo due dei discepoli di Gesù se ne andavano quello stesso giorno ad un villaggio detto Emmaus, distante da Gerusalemme sessanta stadi. E ragionavano insieme di quanto era accaduto. E avvenne che mentre ragionavano e discutevano tra loro, Gesù stesso, avvicinatosi, si mise a far viaggio con essi. Ma i loro occhi non potevano conoscerlo. Ed egli chiese loro: "Che discorsi son questi che voi fate per la strada e perché siete così tristi?" Ed uno di loro, chiamato Cleofa, rispose: "Tu solo sei così forestiero a Gerusalemme da non sapere quanto in questi giorni vi è accaduto?" Ed egli a loro: "Quali cose?" E gli risposero: "Il fatto di Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere ed in parole dinanzi a Dio e a tutto il popolo; e come i sommi sacerdoti ed i nostri capi l'han fatto condannare a morte e crocifiggere. Or noi speravamo che fosse per redimere Israele; invece, oltre a tutto questo, oggi è il terzo giorno da che tali cose sono avvenute. Ma certe donne di tra noi ci hanno meravigliati, perché, essendo andate la mattina presto al sepolcro e non avendo trovato il corpo di

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lui, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di Angeli che lo dicono vivo. Ed alcuni dei nostri sono andati al sepolcro ove han riscontrato quanto avevan detto le donne, ma lui non l'han trovato". Allora Gesù disse loro: "O stolti e tardi di cuore a credere a tutte queste cose predette dai profeti ! Non doveva forse il Cristo patire tali cose e così entrare nella sua gloria?" E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegava loro in tutte le Scritture ciò che a lui si riferiva. E come furon vicini al villaggio ove andavano, egli fece vista di andar più oltre. Ma essi lo costrinsero a restare dicendo: "Rimani con noi, che si fa sera ed il giorno è già declinato". Ed entrò con essi. Ed avvenne che messosi con loro a tavola, prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo porse ad essi. Allora si aprirono i loro occhi e lo riconobbero: ma egli sparì dai loro sguardi. E quelli dissero tra loro: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto, mentre egli per la strada ci parlava e ci interpretava le Scritture?". Ed alzatisi in quell'istante, tornarono a Gerusalemme, e trovarono radunati gli undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: "Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone". Ed essi pure narrarono quanto era loro accaduto e come l'avevano riconosciuto alla frazione del pane.

Il significato della prova.

Contempliamo questi tre pellegrini, che conversano sulla strada di Emmaus e seguiamoli col cuore e col pensiero. Due di loro sono dei fragili uomini come noi, che tremano di fronte alla tribolazione, che la croce ha sconvolto e fatto perdere di animo, che hanno bisogno di gloria e di prosperità per continuare a credere. "O stolti e tardi di cuore - dice loro il terzo viandante. - ... Non doveva forse il Cristo patire tali cose e così entrare nella sua gloria?". Fino ad ora noi pure abbiamo troppo assomigliato a quei due uomini, dimostrandoci così ancora più ebrei che cristiani! Ed è per questo che l'amore delle cose terrene ci ha reso insensibili ad essere attratti a quelle celesti, esponendoci, per la stessa ragione, al peccato. Ma d'ora in avanti, non possiamo più pensare in questo modo. Gli splendori della Risurrezione del nostro Maestro ci mostrano abbastanza chiaramente quale è lo scopo della sofferenza, quando Dio ce la manda. Qualunque siano le nostre prove, non arriviamo mai ad essere inchiodati ad un patibolo, né crocifissi tra due scellerati. Il Figlio di Dio ha avuto invece quella sorte; e osservate, oggi, se i supplizi del venerdì hanno impedito lo slancio che doveva prendere la domenica verso la sua immortale regalità. La sua gloria non è tanto più splendente, quanto più profonda fu la sua umiliazione? Non tremiamo, dunque, più tanto alla prospettiva di un sacrificio; pensiamo alla felicità eterna con la quale saremo ripagati. Gesù, che i due discepoli non riconoscono, non ha dovuto che far loro udire la sua voce e descri-

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vere i piani della sapienza e della bontà divina, e la luce si è fatta nel loro spirito. Anzi, cosa dico? I loro cuori si riscaldavano e bruciavano nel petto, sentendolo parlare di quella croce che conduce alla gloria. E se allora non l'avevano ancora riconosciuto, è che egli stesso chiudeva i loro occhi affinché non lo ravvisassero. La stessa cosa avverrà per noi, se lasceremo parlare Gesù, come fecero loro. Noi comprenderemo allora che "non v'è discepolo da più del Maestro" (Mt. 10, 24) e, vedendo lo splendore di cui oggi egli si riveste, ci sentiremo trasportati a dire a nostra volta: "Le sofferenze del tempo presente non possono avere proporzione alcuna con la gloria che si dovrà manifestare in noi" (Rom. 8,18).

Effetti dell'Eucarestia.

In questi giorni in cui gli sforzi spirituali del cristiano per la sua rigenerazione sono ricompensati con l'onore di essere ammessi, portando la veste nuziale, alla mensa di Cristo, non ometteremo di rimarcare che fu al momento della frazione del pane che si aprirono gli occhi dei due discepoli e che riconobbero il loro Maestro. Il nutrimento celeste, la cui virtù procede unicamente dalle parole di Cristo, porta la luce alle anime; e, allora, esse vedono ciò che prima non scorgevano. Così avverrà per noi, per effetto del sacramento della Pasqua; ma consideriamo ciò che, a questo proposito, ci dice l'autore dell'Imitazione: "Questi davvero conoscono il loro Signore nella frazione del pane, poiché il loro cuore arde così forte dentro di loro, mentre Gesù cammina con essi" (Lc. 4, 14).

Abbandoniamoci, dunque, al nostro Divin Risuscitato; d'ora in avanti, anche più di prima, noi siamo suoi, non più solamente in virtù della sua morte, ma a causa della sua risurrezione, che è anche nostra. Diventiamo simili ai discepoli di Emmaus, fedeli e giocondi, solleciti, secondo il loro esempio, a dimostrare, mediante le nostre opere, quel rinnovamento di vita che ci raccomanda l'Apostolo e che conviene a coloro che Cristo ha amato fino a voler risuscitare insieme con loro.

La Chiesa ha scelto questo tratto del Vangelo di preferenza ad altri a causa della stazione che oggi si tiene nella Basilica di S. Pietro. Infatti san Luca ci dice che i due discepoli trovarono gli Apostoli già a conoscenza della risurrezione del loro Maestro; poiché essi dicevano: "È apparso a Simone". Abbiamo parlato ieri di questo privilegio fatto al Principe degli Apostoli.


[1] In Sanctam Parasceven, et in crucem et latronem.

[2] Prima predica sulla Risurrezione.

[3] Quinta Omelia sulla Risurrezione.

[4] Canone II, Labbe t. v.

 

da: P. GUÉRANGER, L'anno liturgico. - II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. ROBERTI, P. GRAZIANI e P. SUFFIA, Alba, Edizioni Paoline, 1959, pp. 50-58.

 

LINK UTILI

Dom Guéranger, L'Année Liturgiques (Abbaye Saint Benoît de Port-Valais)

Dom Guéranger, L'eresia antiliturgica

 

 

 

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