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Ildefonso Card. Schuster, Liber Sacramentorum > III. La Sacra Liturgia dalla Settuagesima a Pasqua > Lunedì Santo

 

 

Missale Romanum

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LUNEDÌ  SANTO

Colletta a Santa Balbina.

Stazione al titolo "de fasciola".

 

Il titolo di Balbina su quella parte del piccolo Aventino che sovrasta a cavaliere le ampie rovine delle terme di Caracalla, è già noto ai lettori. Poco discosto di là s'eleva la basilica "de fasciola" che una tradizione molto antica poneva in relazione con san Pietro, allorché ad evitare la persecuzione si sarebbe allontanato da Roma. Ad un miglio circa della via Appia si sarebbe sciolta la fascia che copriva la gamba dell'Apostolo tutta piagata dai ceppi che l'avevano stretto in prigione, e Cristo stesso gli sarebbe apparso in atto di entrare in città. Domine, quo vadis? - dice allora san Pietro al divin Maestro. - Eo Romam iterum crucifigi, risponde Gesù, e dispare. A quelle parole Pietro comprende che il Salvatore avrebbe dovuto essere messo a morte in Roma nella persona del suo primo Vicario, ed ubbidiente al comando ritorna tosto in città.

Allo stato attuale dei documenti, ignoriamo quale possa essere stato il fondamento di questa graziosa leggenda; certo si è che essa è molto antica, ed il suo valore trova un addentellato nel nome stesso "de fasciola" attribuito al Titolo insin dal principio del IV secolo.

Sotto l'altare vi si conservano i corpi dei martiri Nereo, Achilleo e Domitilla, ivi trasferiti una prima volta dal vicino cimitero di Domitilla sull'Ardeatina, quando questo dopo i tempi di Paolo I cadde in abbandono e in dimenticanza. In seguito, desolata tutta la regione della via Appia dalla malaria, anche il titolo della fasciola andò in rovina, sicché i corpi dei suoi Martiri furono trasportati nell'interno della Città, nella diaconia di Sant'Adriano al Foro.

Quando in sulla fine del secolo XVI il Cardinal Baronio divenne titolare della basilica della fasciola, fece ristaurare i mosaici dell'arco trionfale del tempo di Leone III, trasferì nuovamente da Sant'Adriano al proprio titolo i corpi dei santi Nereo, Achilleo e Domitilla, e sul loro sepolcro eresse un nuovo altare cosmatesco, già esistente nella basilica di San Paolo sull'Ostiense.

L'odierno Messale Piano oggi assegna la stazione alla chiesa di Santa Prassede, il che deriva dall'uso dell'estremo medio evo, quando cioè il titolo "de fasciola" se ne giaceva abbandonato.

Il "titulus Praxedis" sull'Esquilino comparisce la prima volta in un'epigrafe del 491, venuta alla luce nel cimitero d'Ippolito sulla via

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Tiburtina e che ricorda uno dei suoi preti. Pasquale I che ne fu titolare la ricostruì dalle fondamenta, spostandola però alquanto di sito, ma a rendere più venerabile il nuovo edificio, vi depose un gran numero di corpi di Martiri, colà trasportati dai cimiteri suburbani, oramai caduti in abbandono.

Oltre i mosaici dell'abside, sono pure assai importanti quelli dell'oratorio di San Zenone, ove sino al 1699 questo prete martire riposava a fianco del fratello suo, Valentino. Vi si venera altresì una antica immagine della S. Vergine, ed una colonna di diaspro sanguigno portata in Roma da Gerusalemme nel 1223, perché una tradizione affermava che fosse quella a cui venne legato il Divin Salvatore durante la sua flagellazione.

Sotto l'altare maggiore è deposto il corpo della Santa titolare della basilica, ed in una cripta sotto il presbiterio riposano tutti quei numerosi corpi di Martiri, tolti da Pasquale I ai cimiteri fuori di Roma; per modo che questa basilica, a cagione della sua antichità, dei monumenti artistici e delle sacre reliquie che custodisce, può considerarsi come uno dei più insigni santuari di Roma cristiana.

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L'antifona d'introito è tolta al salmo 34, che anche nella liturgia greca viene adattato alla passione di Cristo: "Giudica, o Iahvè, i miei avversari; aggredisci i miei assalitori; prendi lo scudo e l'egida e vieni in mio aiuto. Trai fuori la spada e precludi lo scampo di fronte ai miei persecutori; di' tu all'anima mia: il tuo soccorso sono io".

Il Cristo, sopraffatto dalla moltitudine e dalla violenza dei suoi avversari - tutti i peccatori, della cui reità s'era compassionevolmente caricato egli, Agnello immacolato - non solo appella al Padre e protesta la propria innocenza, ma lo supplica altresì di porre termine alla baldanza del Satana contro l'umanità e specialmente contro il suo corpo mistico che è la Chiesa, fiaccandone la potenza. Il Padre ha esaudito il grido del Figlio; egli ha schiacciato il capo al dragone infernale sotto il peso della Croce, ed è venuto in soccorso dell'Unigenito risuscitandolo a nuova vita, impassibile e gloriosa.

La colletta esprime tutta la solenne mestizia di questi santi giorni: "Fa, o Signore, che, mentre a cagione della nostra debolezza siamo già per venir meno sotto il peso di tanti flagelli, meritati pur troppo dai peccati nostri, ci risollevi l'animo l'efficacia dei patimenti del tuo Unigenito".

Come Gesù Cristo si offrì per noi spontaneamente al Padre sull'altare della Croce, cosi Egli in cielo ripete nuovamente in nostro

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favore quest'offerta salutare ogni volta che noi lo desideriamo, ed a tale scopo invochiamo i meriti della sua passione.

La lezione deriva da Isaia (L, 5-10), e descrive il Cristo che innanzi al Padre si offre a contradittorio coi suoi avversari. Egli ha esposto il suo corpo ai flagelli, le sue gote a quelli che lo scarnificavano, la sua faccia a coloro che lo ricoprivano di sputi - Isaia descrive tutto questo molti secoli prima con tale un'esattezza di circostanza, che ha meritato alle sue pagine il titolo di Protoevangelo. - Però la coscienza del Giusto oppresso sotto le calunnie degli avversari non gli rimorde nulla, ed Egli, privo d'ogni altro scampo, appella a quello che è la forza di tutti i deboli e di tutti i derelitti, e che, invocato da loro nel momento della. prova, fa tremare tutti i prepotenti: Dio. Se in un libro d'argomento sacro, com'è il nostro, è permesso di citare un'autorità profana, i lettori che hanno letto il classico romanzo del Manzoni, ricordino l'impressione che produsse sull'animo dell'Innominato il nome santo di Dio invocato dalla sua vittima nella sera della sua cattura. Termina Isaia con questa frase cosi solenne: "Chi brancola fra le tenebre senza scorger spiraglio di luce, speri nel Signore e s'appoggi sul suo Dio". Appoggiarci su Dio e credere al suo amore: la vita spirituale sta tutta qui, e beato chi lo intende affidandosi interamente al Signore, senza riserva alcuna.

Il responsorio è tratto dal medesimo salmo dell'introito, ed invoca 'il Signore che venga in soccorso del suo Cristo. Non è a credere che tante preghiere di Gesù siano rimaste inascoltate perché Dio non l'ha sottratto alla morte di Croce. No; esse anzitutto, come nell'orto degli ulivi, esprimevano la naturale riluttanza al patire che dimostra la verità dell'umana natura del Signor nostro Gesù Cristo. Inoltre questi voti erano espressamente subordinati alla volontà del Padre che esigeva la Redenzione del genere umano per mezzo del sacrificio del suo Unigenito. Di più, queste preghiere riguardavano altresì la condizione del corpo mistico del Salvatore, che sono i fedeli, i quali Gesù voleva ad ogni modo strappare dalle fauci dell'infernale dragone.

La preghiera del Redentore venne accettata e gradita dal Padre a cagione della dignità dell'orante, siccome bene spiega l'Apostolo. I suoi voti furono completamente esauditi, ché la sapienza di Dio fece ridondare i tormenti e le calunnie della Sinagoga a maggior gloria del Cristo nel giorno della sua vittoria e del finale trionfo.

Mancano sei giorni al sabato pasquale. Oggi perciò si legge il racconto Giovanneo (XII, 1-9) del convito celebrato da Gesù in casa

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di Lazzaro appunto sei giorni innanzi la Pasqua. Giova notare che i Giudei di Gerusalemme celebrarono questa solennità il 15 Nisan, cioè il giorno appresso alla morte del Signore, il quale perciò nella sera del giovedì 13 Nisan dové anticipare di 24 ore la cena legale dell'agnello. È probabile che quest'anticipazione, giustificata d'altra parte dalla circostanza della sua imminente morte, fosse in uso tra i Galilei, affine di evitare nel tempio per l'uccisione dell'agnello pasquale una ressa troppo pericolosa di popolo. - È noto che i Galilei solevano recarsi in armi alla festa pasquale di Gerusalemme, onde le autorità facevano del tutto per allontanare le occasioni di conflitto tra i Giudei e i Galilei.

Durante il convito, Maria ripeté il gesto del giorno della sua prima conversione ed unse con profumi i piedi di Gesù. Il Redentore però che era tutto preoccupato del pensiero dell'imminente sua morte, dié all'atto un significato funereo, e volle considerarlo come un'amorosa anticipazione dell'imbalsamazione del suo cadavere. Quanto più infatti il Cuore di Gesù era rattristato a cagione della perfidia dei suoi nemici, altrettanto sembra sensibile ai minimi segni d'affetto da parte dei suoi amici. Egli si compiace d'un amore che non è interessato, che non conta neppure col pretesto della beneficenza ai poveri. "Voi i poveri li avete sempre con voi; invece me non avrete a lungo". E volle dire che bisogna profittare delle occasioni favorevoli della grazia divina, giacché per questo non ci mancherà tempo di concedere alla natura quanto giustamente ella reclama. Quando Gesù vuol stare qualche momento con noi, dimentichiamo pure la sollecitudine degli affari esteriori; dimentichiamoci e pensiamo a Gesù.

I poveri li avete sempre con voi. Questa è una delle più confortanti promesse ed uno dei più preziosi tesori che il Signore lascia alla Chiesa. Gesù dipartendosi da questo mondo per andare al Padre, come lascia se medesimo in Sacramento affine di starsene coi suoi fedeli, così vuol restare con noi nella persona dei poveri.

L'antifona per l'offertorio deriva dal salmo 142, ed in essa il Giusto invoca scampo dalle insidie dei nemici. Questo scampo tuttavia egli non lo cerca nelle consolazioni della natura, come spesso fanno tante anime afflitte che tolgono al dolore cristiano tutto il suo profumo soprannaturale, cercando compianto e sollievo tra le creature, o nei compensi della natura. Nella lotta, nella tentazione il giusto nulla vuole che Dio, e perciò lo prega che mediante il lume interiore lo guidi a compiere il suo santo volere.

La colletta d'introduzione all'anafora consecratoria è identica a quella della prima domenica d'Avvento. In essa preghiamo che la

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virtù del Sacramento ci mondi, onde più degnamente possiamo giungere a celebrare suum principium, cioè, la festa pasquale, quando appunto l'Eucaristia venne istituita.

L'antifona per la Comunione è tolta dal salmo 34. È sempre lo stesso concetto che domina la liturgia di tutta questa quindicina pasquale. È il Cristo che si trova sotto l'incubo del giudizio dei suoi nemici; si sente sopraffatto dalle calunnie; appella al Padre e l'invoca a testimone dell'innocenza conculcata: "Siano disonorati e svergognati quanti gioiscono sulle mie sciagure - il demonio cioè che sogghignava ai piedi della Croce e gli amici suoi che passavano e ripassavano davanti ad essa, facendosi beffe di Gesù -; siano coperti di rossore e di paura quelli che di me vanno sparlando".

Nella colletta eucaristica impetriamo dal Signore quel fervore, quella fame cioè spirituale che ci faccia gustare tutte le intime dolcezze della Comunione e ce ne faccia esperimentare i frutti. Come infatti il cibo materiale tanto più rallegra e conferisce alla sanità del corpo quanto più florida è la salute di chi se ne nutre, del pari l'Eucaristia produce nell'anima sempre maggior frutto, quanto più grande sarà la carità ed il fervore di colui che si comunica. Tanto dunque importa la conveniente preparazione ai santi Sacramenti.

Nella colletta di benedizione al popolo, supplichiamo Dio ad aiutarci; onde con slancio di fede ardente e d'amore generoso noi possiamo giungere tra pochi giorni a celebrare il massimo dei suoi benefici; quello cioè col quale s'è degnato di restaurarci, di rifarci cioè a nuovo, mediante la sua redenzione nel Sangue.

Gesù continua la sua passione in tutta la storia della Chiesa, e perciò in tutti i tempi sono necessarie delle anime amanti che coi loro aromi, col loro affetto cioè, compensino il dolce Maestro delle ingiurie di cui lo ricolmano i tristi. Felici queste anime riparatrici, tanto più opportune oggi, quando l'empietà sta travolgendo il mondo! L'unguento prezioso e fragrante che esse versano sui piedi di Gesù, sono le loro lagrime, è la vita loro santa che, a cagione dell'esempio edificante, diffonde il buon odore di Cristo su tutta la Chiesa. Il mondo ritiene inutili e sprecate queste anime contemplative, ed, al pari di Giuda, vorrebbe speculare sulla loro vocazione: Gesù però ne prende le difese ed assicura che, senza danno della pubblica beneficenza, anche queste anime riparatrici votate alla penitenza e alla preghiera, gli sono necessarie nella Chiesa.

 

da A. I. SCHUSTER, Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano - III. Il Testamento Nuovo nel Sangue del Redentore (La Sacra Liturgia dalla Settuagesima a Pasqua), Torino-Roma, Marietti, 1933, pp. 190-194.

 

 

 

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