Missale Romanum
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MERCOLEDÌ SANTO
Sinassi
generale mattutina in Laterano.
Colletta
a San Pietro in Vincoli.
Stazione
a Santa Maria Maggiore.
Al tempo di san Leone Magno, quando le
ferie quaresimali non avevano ancora tutte la propria liturgia eucaristica,
questo mercoledì della Settimana Santa era però sicuramente santificato dalla
messa stazionale, giacché abbiamo tutta una serie d'Omilie del grande
Pontefice recitate in feria IV hebdomadae maioris, in cui l'autore riprende a svolgere innanzi
al popolo romano l'ampio tema della passione del Signore, rimasto interrotto
la domenica precedente. È segno dunque che dalla domenica alla feria IV non
v'era stata alcun'altra sinassi intermedia; anzi, da principio, la stessa
stazione del mercoledì santo doveva probabilmente essere aliturgica, cioè
senza consacrazione, come il venerdì santo, giacché per lunghi secoli gli Ordini
Romani hanno serbato traccia di questa primitiva disciplina. Prescrivono
infatti che la feria IV della settimana maggiore nell'adunanza generale del
clero cittadino e suburbano che si faceva in Laterano la mattina e quindi
precedentemente alla sinassi sull'Esquilino non si recitasse altro che la
solenne preghiera litanica, oggi in uso esclusivamente il venerdì santo. La
consacrazione eucaristica era riservata alla stazione vespertina nella
basilica Liberiana.
Nelle maggiori settimane del ciclo liturgico
a Roma, era di regola che l'adunanza del mercoledì si celebrasse a Santa
Maria Maggiore, quasi ad assicurarsi la protezione della Vergine prima
d'intraprendere alcuna cosa di particolare importanza. Nel nostro caso
speciale, trattasi di porre sotto il patrocinio di Maria i nuovi aspiranti al
battesimo pasquale, e chi meglio di lei potrebbe proteggerli, ella, la buona
Madre, che nel meriggio della Parasceve sarà per essere costituita madre
delle misericordie, e l'avvocata del genere umano?
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L'antifona d'introito è tolta da san Paolo:
"Così in cielo che in terra e nell'inferno stesso al nome di Gesù si
pieghi ogni ginocchio, giacché il Signore essendosi reso ubbidiente sino alla
morte, e alla morte di croce, fu sollevato alla gloria del Padre".
Alla vigilia della passione la Chiesa vuol
confermarci nella fede
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con questo splendido cantico trionfale, affinché dimani, vedendo Gesù confitto sul patibolo tra due ladri,
noi ci ricordiamo che appunto in grazia dell'ubbidienza e dell'umiliazione Egli
ha meritato il trionfo della resurrezione e la distruzione del regno di
Satana.
Nella colletta si supplica il Signore che
pei meriti della passione del suo benedetto Figliuolo, ci scampi dai
flagelli, che abbiamo purtroppo meritati coi nostri peccati.
Non si può fare a Dio cosa più gradita che
presentargli i meriti della passione di Gesù, giacché è appunto nel suo
Unigenito Figliuolo che Egli trova tutte le sue compiacenze, e per riguardo
suo non sa negare nulla.
Quest'oggi, come anticamente nei giorni più
solenni, i quali a preferenza degli altri hanno conservato tracce della
primitiva disciplina liturgica, abbiamo una doppia lezione profetica. Nel
brano che segue (Is. LXII, 11, LXIII, 1-7) il
figlio di Amos descrive Gesù che colle vesti spruzzate di sangue sta
prendendo una tremenda rivincita sui nemici dell'anima nostra. Infatti la sua
passione cela un mistero d'ineffabile umiltà e di terribile possanza, mentre
le umiliazioni e i tormenti che Egli accettò per nostro amore, sono appunto
le armi colle quali schiacciò l'umana superbia, la sensualità, e ridusse al
niente la potenza di Satana.
Segue il responsorio derivato dal salmo 68,
nel quale si descrivono le ambascie del Cuore di
Gesù nella sua passione: "Non rivolgere il volto dal tuo servo". -
Il Salvatore s'era caricato del peccato degli uomini, e s'era quindi
assoggettato alla pena dell'abbandono da parte di Dio, il quale giustamente
rivolge il suo volto dal reo peccatore. È quell'aspro martirio che
corrisponde in qualche modo alla pena del danno che tormenta i dannati
nell'inferno. - "Tosto mi ascolta, perché sono tribolato. Mi salva, o Iahvé, perché i flutti son saliti sino all'anima
mia" - il peccato cioè ha amareggiato l'intimo dell'anima mia, cosi che
il mio cuore è in preda alla più terribile desolazione, senza che dall'unione
ipostatica colla persona del Verbo ne derivi alla mia parte inferiore il
minimo conforto. - "Affondai in una voragine limacciosa - l'iniquità di
tutto il mondo - e non trovai alcun
sostegno". - Quest'abbandono di cui si dolse Gesù in croce non va inteso
in senso assoluto, giacché anche durante la sua straziante agonia sul
patibolo infame l'anima benedetta del Redentore era beata nella chiara
visione di Dio; ma si deve intendere in senso relativo, in quanto che Dio per
abbandonare il suo Unigenito Figliuolo in preda ai patimenti, dispose che
questa beatitudine dell'anima non ridondasse sul corpo.
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Segue la colletta, che al ricordo della
passione del Signore associa bellamente quello ancora della resurrezione.
Dobbiamo infatti credere che Gesù Cristo in un'unica persona unisse la natura
divina e l'umana, senza alcuna confusione, ma con perfetta distinzione di
proprietà. Egli quindi come uomo patisce e muore; però la sua umanità perché
unita ipostaticamente alla Divinità, non può marcire nel sepolcro, ma deve
ricevere la più splendida glorificazione risorgendo da morte, primogenito fra
tutti i morti, anzi cagione e prototipo della nostra universale resurrezione:
"O Dio, che a sottrarci dal potere del nemico volesti che il Figlio tuo
ascendesse al patibolo della croce, concedi ai tuoi servi che possano
conseguire i frutti della sua resurrezione".
Questi frutti di resurrezione sono la
resurrezione spirituale delle anime per mezzo della grazia, e poi finalmente
la loro finale salvezza nella gloria. Senza questi frutti, la passione di
Gesù Cristo rimarrebbe sterile, come dice l'Apostolo: Ergo gratis Christus mortuus est?; ben si
comprende adunque come la resurrezione integra il concetto della passione, ed
è per questo che la liturgia non scompagna mai questi due sacri ricordi, che
s'illustrano e si completano reciprocamente.
La lezione seguente (Is.
LIII, 1-12) venne chiamata assai bellamente il Protoevangelo,
perché in essa il Veggente di Giuda molti secoli innanzi contempla le umiliazioni
e gli spasimi sostenuti da Gesù nella passione, di cui descrive i più minuti
particolari. Il titolo caratteristico che qui si attribuisce al Messia, è di Servo
di Iahvé, poiché, siccome pel peccato l'uomo
aveva tentato di sottrarsi al dominio di Dio, cosi il Redentore ad espiare
questa ribellione dové consacrarsi interamente a compiere la volontà del
Padre. Gesù è di Dio, scrive san Paolo: Christus
autem Dei. Egli è di Dio e come figlio e come
servo, anzi, come vittima. I diritti divini su Gesù s'affermano quindi in
modo assoluto e perfetto, sopratutto mediante
l'unione ipostatica del Verbo colla natura umana del Salvatore; in virtù di
quest'unione, l'umanità di Gesù è perfettamente di Dio.
Questo titolo di Servo di Iahvé viene meglio spiegato dal Profeta in tutto il
brano che oggi si legge alla messa. Trattasi d'un aspetto nuovo e singolare
sotto il quale ci si presenta il Messia. Il suo regno dovrà sicuramente
essere glorioso e trionfante, ma gli inizi saranno umili, e prima che Gesù
entri nella propria gloria, sarà necessario che Egli patisca molto e venga
confitto alla croce.
Ma perché il servo di Iahvé
deve soffrire? Risponde il Profeta: "Egli s'è addossato i nostri guai e
i nostri peccati; il Signore l'ha caricato dei nostri peccati, e noi veniamo
risanati in grazia delle sue
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piaghe. Egli muore senza far lamento, sarà sepolto tra gli
empi ed il suo tumulo sorgerà tra quelli dei potenti. Ma in grazia di questo
suo spontaneo sacrificio il Signore gli accorderà una progenie sterminata, ed
egli colla sua parola ricondurrà molti alla giustizia".
Il seguente responsorio è stato stralciato
dal salmo 101, e descrive i sentimenti di Gesù nell'estrema agonia,
sentimenti di dolore e d'umiliazione, ma di perfetta confidenza in Dio che,
giunto il momento, sorgerà in suo aiuto e lo risusciterà: "Signore,
ascolta la mia preghiera, giunga a te il mio grido. Non volger via da me la
tua faccia; ogni volta che sono in tribolazione, dammi ascolto. Nel dì che
t'invoco, t'affretta ad esaudirmi, giacché si dileguarono t miei giorni
siccome fumo, e le mie ossa, quasi in una vampa, sono riarse. Fui abbattuto
siccome fieno, inaridì il mio cuore, sicché dimenticai di mangiare il mio
pane. Tu però ben sorgerai a compassionare Sion, giacché è tempo d'averne
pietà, ne è giunto il momento".
Con quanta trepidazione e rispetto non
dobbiamo noi meditare nel Salterio questi sentimenti di Gesù Crocifisso!
Questo sacro libro di preghiera è il miglior commentario del santo Vangelo,
giacché mentre gli Evangelisti s'occupano di preferenza a descrivere la vita
esterna e l'insegnamento del Salvatore, il Salterio ce ne descrive gl'intimi
sensi del cuore.
Oggi si legge la Passione del Signore
giusta san Luca (XXII, 1-7 e XXIII, 1-53), che riflette a preferenza d'ogni
altro la predicazione evangelica di san Paolo, col quale s'accorda
verbalmente nella formula dell'istituzione eucaristica.
La citazione d'Isaia fatta da Gesù
nell'ultima cena: Et cum iniquis
deputatus est, si riferisce al brano letto
precedentemente, il quale così riceve autenticamente un significato
messianico.
Le spade che avevano portato gli Apostoli
salendo al cenacolo, si spiegano tenendo conto dell'usanza dei Galilei, i
quali avevano in uggia i Giudei, sicché salivano in armi a Gerusalemme per
celebrarvi la solennità pasquale. E che anche gli Apostoli non portassero la
spada per semplice complimento, lo si vide poi dopo nell'orto di Getsemani,
dove dové intervenire l'ordine di Gesù per farla riporre nel fodero. La
Chiesa non intende di vincere uccidendo, ma lasciandosi uccidere.
Sulla via del Golgota
Gesù conforta le buone donne che piangevano i suoi strazi, e le avverte che
la loro devozione alla sua passione non si fermi in uno sterile
sentimentalismo, ma valga a far emendare la loro vita. Chi s'affligge infatti
della morte del Signore, deve sradicare e svellere dal proprio cuore il
peccato che ne è stato
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il carnefice. Si in viridi ligno
haec faciunt, in arido
quid fiet? Cioè, se la divina giustizia è si rigorosa nel punire il peccato sul proprio Figliuolo
innocente, che non farà ella verso il peccatore ostinato, quando, al momento
dell'ultimo giudizio, è finito il tempo della misericordia, ed incomincia
quello della santa e pur tremenda giustizia?
Dopo la morte di Gesù escono fuori Giuseppe
d'Arimatea e Nicodemo ed in un momento, quando gli Apostoli stessi si celano,
questi che sino allora erano stati timidi e non avevano osato di
compromettersi troppo nella causa di Gesù, escono improvvisamente dal loro
riserbo, affrontano impavidi l'opinione pubblica, e sono i primi a tributare
al Crocifisso l'omaggio della loro devozione.
Non bisogna mai giudicare troppo
sfavorevolmente il nostro prossimo. La grazia signoreggia i cuori, ed in un
attimo può trasformarli a seconda dei suoi disegni.
L'antifona per l'offerta deriva dal salmo
101: "Signore, - non ostante che la moltitudine delle colpe del genere
umano di cui mi son generosamente caricato mi renda indegno del tuo sguardo -
accogli la mia preghiera ed il mio grido giunga sino a te - sfondando, a dir
cosi, il muro di bronzo che il peccato ha posto tra te e l'umanità
prevaricatrice".
Nella prece d'introduzione all'anafora
eucaristica, noi preghiamo Dio a gradire i nostri doni, ed a far si che, in grazia degli affetti del cuore, possiamo
conseguire gli effetti della passione del suo divin
Figliuolo, quale lo celebriamo nell'eucaristico mistero.
L'antifona per la Comunione è tolta pur
essa dal salmo 101: "Io temperava col pianto il mio calice, giacché tu
non m'hai sollevato in alto per stritolarmi". - Nella passione, la
divinità sosteneva l'umanità santa di Gesù per renderla più capace di
soffrire. - "Io inaridii siccome erba, mentre tu sei in eterno. Ma tu, o
Signore, certo una volta sorgerai ed avrai pietà di Sion, perché è giunto il
tempo di muoverti a pietà di lei". - Si, il Signore si leverà alla
difesa di Gesù, e sarà all'alba della solennità pasquale.
Allora Egli risanerà tutte le piaghe del
suo Cristo, l'inebbrierà di gioia cogli splendori
d'una nuova vita. Sion parteciperà a tanto bene, perché la resurrezione non
comprende esclusivamente il Cristo, ma si estende a tutto il suo mistico
corpo.
Nella colletta di ringraziamento preghiamo
il Signore che la passione e morte di Gesù, quale la commemoriamo col mistero
dell'altare, c'infonda nell'animo una ferma speranza che Egli un giorno ci
largirà in cielo la vita eterna. - La morte di
Gesù è sorgente di vita.
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Ecco la più splendida realizzazione di
quella profezia d'Osea: O mors, ero mors tua! morsus tuus ero, inferne. Sarebbe stato troppo poco il
mostrarsi superiore alla morte con non soccombervi. Gesù ha voluto trionfarne
più completamente, e perciò morendo Egli incatena la morte e il Satana ai
piedi della croce, perché la morte sia all'umanità principio e fonte
d'indefettibile vita.
La benedizione di congedo al popolo è tanto
bella, che la Chiesa si serve dell'odierna colletta per terminare nel triduo
seguente tutte le ore dell'Ufficio Divino: "Riguarda, o Signore, la tua
famiglia, per cui nostro Signore Gesù Cristo non esitò a darsi in mano ai carnefici
e a subire il tormento della crocifissione". Non v'ha nulla
che più intenerisca il Padre e lo commuova a misericordia verso di noi,
quanto il ricordargli la passione del suo Unigenito, e sopratutto
l'immensa carità con cui ci ha amato.
Tutta la teologia cattolica si riassume nel
Crocifisso. È Lui l'intima ragione di tutti gli altri misteri della fede,
giacché è in Gesù che Dio ci ha amati e predestinati alla gloria. Il
Crocifisso è il compendio delle opere di Dio, è il capolavoro del suo amore.
Egli se ne compiace tanto - et vidit cuncta quae fecerat
et erant valde bona -,
che non può sentirselo ricordare, non può anzi neppur mirarne l'immagine,
senza tutto commuoversi a pietà verso di noi. Con quanta devozione adunque,
dobbiamo noi pure contemplare Gesù Crocifisso e presentare al Padre i suoi
dolori e i meriti suoi a ricoprire i peccati nostri!
da A. I. SCHUSTER, Liber
Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul
Messale Romano - III. Il Testamento Nuovo nel Sangue del Redentore (La
Sacra Liturgia dalla Settuagesima a Pasqua), Torino-Roma, Marietti, 1933,
pp. 201-206.