Missale Romanum
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SABATO
SANTO
Colletta
in Laterano pei Catecumeni.
Il sabato pasquale importava in antico un
digiuno cosi rigoroso, che si protraeva dalla sera del venerdì sino all' alba
della resurrezione. Da esso in Roma non ne erano dispensati neppure i
fanciulli. Per questa ragione oggi non si celebrava neppur il convito
eucaristico, giacché tutta la Chiesa era come in devota attesa che giungesse
finalmente la notte sacra in cui doveva solennizzarsi il mistero della
resurrezione del Cristo.
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Il sabato santo di buon mattino
l'arcidiacono faceva liquefare in Laterano della cera, v'infondeva del
crisma, la benediceva e la riversava in altrettante piccole forme ovali, su
cui era impressa l'immagine del mistico Agnello di Dio. Questi Agnus Dei erano
poi distribuiti ai fedeli nella messa del sabato in Albis, siccome
eulogie e ricordi della solennità pasquale.
Fuori di Roma, dove vigeva l'antico rito
del Lucernario vespertino e della benedizione del cereo pasquale, la cera da
cui si estraevano gli Agnus Dei era appunto quella che restava dalla
grande candela destinata ad illuminare l'ambone nella notte di Pasqua.
Siccome però Roma acconsenti solo più tardi ad adottare questo rito
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del Lucernario pasquale, per adattarsi
all'uso diffuso ormai sin dal quinto secolo di distribuire al popolo degli Agnus
Dei di cera, ne attribuì la confezione all'arcidiacono.
È da notarsi tuttavia che in Roma, a
differenza delle altre Chiese, queste eulogie papali non erano punto in
relazione col cereo pasquale. Nel tardo medio evo, il significato e
l'efficacia di questi Agnus Dei venne descritta nel versi seguenti leonini:
Balsamus et munda cera cum chrismatis unda,
Conficiunt Agnum, quod munus do tibi magnum.
Fonte
velut natum, per mystica sanctificatum,
Fulgura
desursum pellit et omne malignum.
Peccatum frangit, ut Christi sanguis et angit,
Pregnans servatur, simul et partus liberatur.
Munera fert dignis, virtutem destruit ignis,
Portatus munde, de fluctibus eripit undae.
Morte repentina servat, Satanaeque ruina,
Si quis honorat eum retinet super hostem
trophaeum.
Parsque minor tantum, tota valet integra quantum.
Agnus Dei, miserere mei;
Qui
crimina tollis, miserere nobis.
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Balsamo,
pura cera con l'onda crismale,
Compongono
il prezioso Agnello che t'offro in dono.
Quasi nato
nel sacro fonte, e santificato da un'arcana prece,
Esso tiene
lontane da te le folgori ed ogni altro infortunio.
Spezza le
ritorte del peccato, gli muove guerra al pari del Sangue di Cristo.
La donna
incinta vien conservata incolume, il suo parto è salvo.
Concilia
grazie a chi ne à degno, estingue la forza del fuoco;
Portato indosso
con devozione, salva dai flutti dell'onda,
Scampa da
morte improvvisa, dalle rovine procurate da Satana.
Chi lo terrà
con riverenza conseguirà vittoria sull'avversario.
Ed un
semplice frammento avrà tanta efficacia quanto tutto intero l'Agnus Dei.
Agnello di
Dio, di me abbi pietà,
Tu che
scancelli i peccati, ti muova a pietà di noi.
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Nei secoli a noi più vicini, la benedizione
degli Agnus Dei, venne riservata ai Romani Pontefici, i quali sono
soliti di compierla solennemente al principio e in ciascun quinto anno del
loro pontificato.
Secondo gli Ordines Romani, il
sabato santo in sull'ora di terza i catecumeni si raccoglievano una penultima
volta in Laterano nella basilica del Salvatore. La fila dei maschi si
schierava a destra, quella delle femmine a sinistra.
Il sacerdote cominciava dapprima a
tracciare loro sulla fronte il segno di redenzione; quindi imponendo a
ciascuno le mani sul capo, recitava l'esorcismo: Nec te lateat, Satana,
che ancora adesso fa parte del rituale battesimale per gli adulti.
Dopo l'intimo a Satana che si ritiri e dia
luogo allo Spirito Santo, a rievocare il ricordo del Salvatore che colla
saliva e col co-
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mando Ephpheta risanava i ciechi, i
sordi e i muti, il presbitero toccava col dito bagnato di saliva il naso e
gli orecchi dei battezzandi, dicendo ancor egli a ciascuno di loro:
"Apriti alla grazia dello Spirito Santo. Tu poi, o demonio, fuggi via,
giacché è imminente il giudizio di Dio".
In antico il battesimo degli adulti, quando
l'ambiente esteriore era in massima parte corrotto ed idolatra, importava
veramente una decisa conversione a Dio, ed era il risultato d'una suprema
lotta tra l'anima e il demonio. L'anima voleva affrancarsi dalla schiavitù
obbrobriosa del Satana, il quale colle illecebre del vizio e la gagliardia
delle passioni faceva di tutto per non lasciarsi sfuggire di mano la preda.
L'istante in cui il catecumeno discendeva nella piscina battesimale era il
momento decisivo della lotta; onde, a somiglianza di quanto costumavano gli
atleti nello stadio, i quali prima d'incominciare la gara si spalmavano le
membra d'olio, la Madre Chiesa ungeva i suoi atleti coll'olio benedetto dei
catecumeni, affine di allenarli al combattimento.
Il momento era solenne. Alla domanda del
Pontefice: "Rinunzi tu al Satana?" ciascuno degli aspiranti
coll'indice teso verso l'Occidente, la regione delle ombre, del tramonto e
delle tenebre notturne, diceva: "Io rinunzio a te, o Satana, alla gloria
tua, alle opere tue". Quindi, voltandosi verso Oriente, il candidato
pronunciava la formola sacra di sua consacrazione: "A te mi dedico, o
luce increata".
Dopo una nuova imposizione delle mani del
Sacerdote ed un nuovo esorcismo, seguiva la cerimonia assai solenne della redditio
Symboli, nella quale cioè i catecumeni dovevano compiere la loro
professione di fede cristiana, giusta la formola loro precedentemente
spiegata dal Pontefice nella stazione in aperitione aurium, il
mercoledì precedente la domenica di Passione. Gli Ordini Romani che ci
descrivono i riti dell'iniziazione cristiana in uso nel secolo VIII, qui
semplificano di molto la cerimonia, e fanno recitare il Credo - ecco la prima
destinazione liturgica del Simbolo: una formola prebattesimale di fede
cattolica - dal solo presbitero, frattanto che egli imponeva le mani sugli
aspiranti. Ma sant'Agostino, nel descriverci nelle Confessioni la
conversione del retore Vittorino, ci narra che a Roma era uso che i
Catecumeni stessi, ciascuno alla sua volta, recitasse il simbolo dall'ambone
alla presenza del popolo, dichiarando pubblicamente la propria fede.
Quando giunse la volta di Vittorino,
aggiunge il Santo, i presbiteri, per un riguardo alla celebrità della sua
fama, gli si proffersero di ricevere soltanto in privato quella professione
di fede, risparmiandogli quella comparsa in pubblico; ma il pio convertito
non volle
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accettare tale riserbo, osservando che,
come altra volta non aveva provato difficoltà a tener pubblicamente scuola
d'eloquenza, così neppure allora poteva dispensarsi d'annunciare innanzi alla
moltitudine del popolo la sua fede cristiana.
Salì pertanto sull'ambone. Al primo vederlo
un grido generale di gioia insieme e di maraviglia risuonò per l'aula:
Vittorino, Vittorino!
E Vittorino, franco sul pulpito, recitò in
mezzo alla commozione dell'assemblea il suo Credo, quel Credo che sul suo
labbro in quel momento assumeva uno speciale significato, giacché
rappresentava una nuova vittoria della stoltezza della Croce su tutta la
boria della sapienza della carne [1]. Era
una nuova apologia del Cristianesimo, un trionfo della Fede.
Dopo un'ultima preghiera, i catecumeni
venivano congedati: Catechumeni recedant. Filii charissimi, revertimini in
locis vestris, expectantes horam qua possit circa vos Dei gratia baptismum
operari.
Come il Cristo durante tutto il giorno del
sabato aveva riposato nel sepolcro, così nel frattempo anche i fedeli nell'
orazione e nel digiuno solevano attendere che in cielo spuntasse l'astro
notturno, per indi recarsi al battistero apostolico della Salaria o in
Vaticano, dove primitivamente s'amministrava il battesimo.
Negli antichi Ordines non si parla
punto d'Ufficio Divino il sabato santo. Oltre a un criterio di saggia
discrezione, avuto riguardo anche al digiuno e alle fatiche della futura
veglia Pasquale, finché il Cristo era trattenuto nel sepolcro, sembrava che
la preghiera privata s'adattasse meglio al pio simbolismo di quest'attesa. Il
Salterio è quello che c'inizia assai felicemente a penetrare questo mistero,
giacché un gran numero di salmi descrivono appunto i sentimenti di Gesù, che
nell'oscurità della tomba supplica il Padre, che gli accordi il trionfo della
sua resurrezione.
Nella sera della Parasceve il tremendo
artefice che aveva prestato l'opera sua riparatrice per trenta danari, - e
per bocca di Geremia aveva anzi sfidato Israele a trovar alcunché da ridire
sul suo lavoro e sull'equità della mercede - questo artefice inflessibile
s'era pur disteso sul letto del suo riposo, e i discepoli recandone al
sepolcro il cadavere, avevano cantato, giusta il rituale funebre giudaico, il
bel salmo: Qui habitat in adiutorio Altissimi, col versetto fatidico: In
pace, in idipsum dormiam et requiescam.
Ora, il sacrificio, l'umiliazione dovevano
essere complete, e mentre l'anima di Gesù nel Limbo annunziava ai trapassati
la Re-
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denzione già compiuta, il suo corpo, al
pari d'un chicco di grano deposto nel seno della terra, doveva pur subire
l'umiliazione del sepolcro, anche perché nessuno potesse dubitare della
verità della morte, e quindi della sua futura resurrezione. Anzi, ad
escludere qualsiasi possibilità di dubbio, vengono allontanati dalla tomba di
Gesù tutti i suoi amici, e gli Ebrei stessi sono incaricati dalla sapienza di
Dio d'eseguire la ricognizione giuridica dei fatti che si svolgono
nell'interno di quella caverna sepolcrale. Il Sanhedrin vi appone adunque i
propri suggelli, vi fa piantonare le sue guardie, perché nessuno ardisca di
manomettere in alcun modo quel sepolcro ... Che è? ... All'alba del terzo
giorno il Cristo risorge trionfante da morte; gli Apostoli e la Chiesa
durante 19 e più secoli lo predicano già vivente a tutte le nazioni credenti,
le quali in grazia della fede entrano anch'esse a parte della sua
resurrezione. Ed Israele? Mentre l'umanità intera con una Pasqua che non ha
mai fine celebra il proprio trionfo sulla morte e sull'inferno, la Sinagoga
sta ancora in armi al sepolcro del morto, pronta a dar mano alla spada, se il
Cristo oserà d'infrangere i suggelli del Sanhedrin, ed uscire libero dalla
tomba.
Il tempo in cui Gesù si trattiene nella
tomba, designa molto bene quello della nostra vita presente, la quale è
un'attesa della futura e completa nostra resurrezione. Noi adesso cominciamo
a risorgere alla grazia, ed è per questo che stanotte, celebrando la solennità
pasquale, non diciamo già la Pasqua di Cristo, ma bensì Pascha nostrum
immolatus est, è stata immolata la nostra Pasqua. La festa tuttavia non è
completa; troppe cose in noi rimangono inerti nel sepolcro della corrotta
natura, o sono avvolte ancora nelle ombre dell'ignoranza. La Fede tuttavia ci
sostiene, e la speranza ci dà garanzia che un giorno tutte queste miserie
della nostra mortalità cesseranno anche per noi. Ma intanto noi dobbiamo
rassegnarci a trascorrere in devota attesa il nostro mistico sabato santo.
Questa parziale resurrezione dell'anima ci viene accordata come in anticipo -
precisamente come l'odierna disciplina ecclesiastica anticipa la celebrazione
della resurrezione di Gesù nell'estremo giorno di quaresima -. Ma trattasi
d'un semplice acconto. Rimane pur sempre vero che oggi è tempo di passione e
di quaresima. Verrà, verrà la vera e completa Pasqua nel suo più ampio
significato. E quando? Quando anche il Cristo cesserà d'offrire
quotidianamente per mano dei suoi sacerdoti i misteri Eucaristici che
commemorano la sua morte, ed inaugurerà sull'altare del cielo una liturgia
nuova, quella dell'universale ed eterna Pasqua di resurrezione.
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[1] Confess., lib. VII, ii.
da A. I. SCHUSTER, Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul
Messale Romano - III. Il Testamento Nuovo nel Sangue del Redentore (La
Sacra Liturgia dalla Settuagesima a Pasqua), Torino-Roma, Marietti, 1933,
pp. 230-234.