Missale Romanum
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DOMENICA DI PASQUA
Stazione a Santa Maria Maggiore.
Durante questa
settimana pasquale la liturgia romana è tutta preoccupata da due grandi
pensieri, quello della resurrezione di Gesù, e del battesimo amministrato ai
neofiti. Sono come due misteri che s’integrano e s’illustrano a vicenda; uno
è simbolo dell’altro; uno è il prototipo, l’altro l’immagine, ma che non si
comprendono più se vengono separati tra loro, giacché la rigenerazione delle
anime alla grazia mediante il battesimo, in un senso spirituale ma pur denso
di realtà, è una nuova resurrezione del Cristo nelle sue mistiche membra.
Le stesse feste
stazionali di questa settimana hanno un carattere alquanto differente dalle
solennità quaresimali; non vi si parla più di digiuni e di penitenze corporali,
ma si visitano invece le grandi basiliche romane, conducendovi come in
trionfo lo stuolo biancovestito dei neofiti.
Dopo la vigilia
pasquale celebrata in Laterano, la prima visita è alla basilica esquilina
della Madre di Dio, perché a Lei, prima che ad ogni altro, debbono essere
annunziate le gioie della resurrezione; a lei, che più intimamente di
qualsiasi creatura, fu a parte della passione di Gesù. Inoltre, le fatiche
sostenute nella notte precedente, e il prolisso ufficio vespertino che doveva
nuovamente celebrarsi presso il fonte battesimale del Laterano, difficilmente
avrebbero permesso al Papa di allontanarsi troppo dal patriarchio per recarsi
in processione a San Pietro, dove sarebbe toccata di regola la messa
stazionale in questo giorno solenne.
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L’introito è
derivato dal salmo 138, che celebra in genere la scienza e presenza di Dio,
che pervadono il più intimo del nostro essere. L’antifona però è
stata adattata alla solennità pasquale. Gesù infatti, si è addormentato sulla
Croce, affidando al Padre il suo spirito. Egli ora si ridesta tra le braccia
amorose di Iahvé, il quale ha accettato l’innocente
Vittima che gli si è spontaneamente
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offerta; Egli se l’è accostata al
seno, e l’ha riscaldata col proprio calore vitale. Gesù è risorto.
“Io mi levo e mi
ritrovo sempre con te; lodate Iahvé; tu tieni su di
me la tua mano; lodate Iahvé; troppo eccelsa m’è
divenuta la tua scienza; lodate Iahvé, lodate Iahvé”.
Salmo: “Iahvé,
tu mi scruti, bene tu mi conosci; tu conosci il mio stare e il mio levarmi”.
V). “Gloria, ecc.”.
Segue la
splendida colletta. La resurrezione del Cristo è un’anticipazione della
resurrezione dell’umanità. Le membra, vedendo oggi il loro mistico capo
risorto da morte, vengono confermate nella speranza che un giorno anch’esse
conseguiranno egual sorte.
Preghiera. - “O Signore, che oggi per
mezzo del tuo unigenito Figlio hai sconfitta la morte e ci hai aperte le
porte della beata eternità, adempi colla tua grazia i voti che tu per primo
ti degni di ispirarci. Per lo stesso Signore, ecc.”.
La lettura è
tratta dalla prima Epistola ai Corinti (V, 7-8). Bisogna toglier via l’acredine
dell’antico fermento, per celebrare la Pasqua negli azzimi dell’innocenza e
della schiettezza. Cristo è la nostra Pasqua, perché Egli colla sua immolazione
ha posto termine all’Antico e ha dato principio al Nuovo Testamento. Noi
dunque, come Lui, dobbiamo procedere innanzi a Dio col candore e la
semplicità dei figli, non avendo più nulla di comune colla vecchia natura
avariata. Come il Figlio di Dio riflette puramente la bellezza del Padre,
così ancora ciascun cristiano è chiamato a riflettere la bontà e la bellezza
divina. È appunto quello che diceva l’Apostolo in altro luogo: Estote imitatores
Dei, sicut filii charissimi (Ad Ephes. V,
1).
Segue il
responsorio graduale, tratto dal salmo pasquale 117: “Questo è il giorno che
ha fatto Iahvé, in esso esultiamo e rallegriamoci”.
Infatti, se il dì di Natale noi abbiamo cantato con tanta gioia, che Gesù s’era
incarnato de Spiritu Sancto
ex Maria Virgine, ed era nato per patire e
morire, quanto più s’addice la gioia a questo giorno in cui, senza alcuna
umana cooperazione, Dio solo ridà la vita a Gesù, e, a dir così, lo rigenera
alla propria gloria? Favore sì grande fa sì che Gesù prorompa in vivissime
azioni di grazie: “Lodate Iahvé, perché è buono, ed
eterna è la sua misericordia”. Egli è particolarmente buono con ciascuno di
noi, cosi che non ha risparmiato il Figlio, appunto per non riserbare a noi
che i magnifici tesori della sua bontà.
Con Gesù ha fatto
trionfare la sua inesorabile giustizia, con gli uomini la misericordia.
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Il verso alleluiatico s’ispira alle parole
dell’Apostolo: “La nostra Pasqua è stata già immolata: Cristo”. Gesù è detto Pascha nostrum, perché Egli s’è dato
interamente a noi. Egli non vuole celebrare la Pasqua da solo, ma vuol farla
con noi, affinché anche noi ci associamo alla sua passione, e quindi alla sua
trionfale resurrezione.
Egli non si chiama Pascha
semplicemente, ma Pascha nostrum,
perché, se la sua morte e resurrezione non divengono intimamente nostre in
grazia del nostro rivivere, di far nostri colla nostra vita spirituale i
misteri suoi, le sue pene e le glorie sue non ci saranno punto proficue,
precisamente come non giova affatto all’infermo il farmaco, fin tanto che non
viene sorbito e si conserva entro le vetrine della farmacia.
L’origine della sequenza (acolutia) deve probabilmente esser
ricercata a Bisanzio, donde pel tramite di monaci Greci pervenne nella badia
di San Gallo in Isvizzera. I lunghissimi neumi
orientali sull’alleluia, riuscivano di noia e di difficile esecuzione ai
cantori latini; onde il monaco Notchero pensò di
sostituire a tutti quei vocalizzi in coda all’alleluia, dei testi ritmici, a
cui si dovessero adattare gli identici neumi del iubilus
alleluiatico. E cosi ebbe origine la sequenza. La sequenza pasquale è
attribuita a Wipo († 1050), cappellano alla corte
di Corrado II e di Enrico III. Il testo edito nel Messale è mutilo, giacché
in esso è soppressa tutta la quinta strofa, la quale manca così del suo
corrispondente.
Strof. V. Credendum est magis soli
Mariae veraci,
Quam iudeorum
Turbae fallaci.
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Scimus Christum surrexisse
A mortuis vere;
Tu nobis victor
Rex miserere.
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Anche l’originario
praecedet suos,
all’epoca della revisione Piana del Messale venne cangiato, per svista
probabilmente paleografica, in praecedet vos. L’amen e l’alleluia sono pure
posteriori.
1)
I cristiani diano tributo di lode alla vittima Pasquale.
2) L’agnello riscattò il gregge;
Cristo innocente, col Padre
Riconciliò i peccatori.
3) Dicci, o Maria,
Che hai tu veduto lungo la via?
4) Il sepolcro del Cristo tornato di nuovo a vita,
E la gloria vidi del Risorto.
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5) È piuttosto a credere alla sola
Maria verace,
Che alla turba
Fallace d’Israele.
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2a) La morte e la vita s’azzuffarono
In uno strano duello;
La fonte della vita, già morta,
Vive e regna.
3a) Gli angeli che facevan fede (della
resurrezione),
Le fascie e il sudario.
4a) Risorse il Cristo, mia speme;
Precederà. i suoi in Galilea.
5a) Sappiamo che Cristo è risorto
Indubbiamente da morte.
Tu a noi, vittorioso
Monarca, dona misericordia.
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La sequenza, al pari dell’innodia dell’ufficio,
apporta alla liturgia un elemento poetico estrascritturale
e d’ispirazione privata; motivo per cui Roma l’ammise solo tardi nei propri
libri liturgici. Nel cerimoniale della corte papale, il posto concesso nel
secolo XII alla sequenza era estraliturgico,
durante il convito o il simposio del clero nel triclinio Leoniano.
La sequenza pasquale, in particolare,
trasportata dentro la messa a guisa di inno preevangelico, ha perduto molto
del suo antico carattere drammatico, che in Francia la rendeva tanto cara al popolo; quando cioè al
mattino di questo giorno essa veniva alternata dallo stuolo degli Apostoli,
dall’assolo di Maria di Magdala e finalmente dal coro finale.
La lezione del Vangelo col racconto del
messaggio dell’angelo alle pie Donne, è tolta da Marco (XVI, 1-7). La
resurrezione di Gesù Cristo è un fatto dogmatico solidamente documentato.
Essa è avvenuta in mezzo ad un ambiente in gran parte ostile, - i giudei -,
in parte refrattario a prestarvi fede; e sono, non soltanto gli uomini, gli
Apostoli, ma le stesse donne. Non si può dunque pensare alla autosuggestione
della prima generazione cristiana, che avrebbe attribuito al Cristo storico,
quanto invece era una delusione nelle loro speranze. No; la resurrezione di
Gesù invece fu creduta da loro, loro malgrado: essi non erano disposti ad
ammetterla, e doverono piegarsi all’evidenza. Essi credettero, ma perché
videro, perché palparono sensibilmente, perché mangiarono e bevvero
con lui, che era morto e risuscitò.
Il verso offertoriale è tolto dal salmo 75.
“La terra fremé ed allibì, quando il Signore risorse per venire a giudicare
il mondo. Come la natura è stata associata alla maledizione di Dio contro il
peccato di Adamo, così, al dir di san Paolo, essa è in attesa impaziente del
giorno della riscossa e del suo affrancamento dallo stato di degradante
servaggio in cui la detiene il peccatore. Al primo annunzio della parusia del
Cristo risorto, la terra si scuote dai suoi cardini, perché già incomincia il
giudizio di Dio sul mondo infedele; all’ultimo giorno poi, allorché Gesù
verrà a giudicare definitivamente i vivi ed i morti, tutta la creazione
sentirà la presenza del Creatore, e si associerà a
lui nel combattere gli empi, come dice la Sapienza: et pugnabit
cum illo orbis terrarum contra insensatos (Sap. V, 21).
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La colletta sulle
oblate e quella di ringraziamento sono le medesime che nella passata veglia,
perché forse originariamente questa seconda messa non c’era, ed il sacrificio
pasquale era quello che poneva termine alla solennità del battesimo.
L’iniziazione ai
misteri pasquali, come si esprime l’orazione sulle oblate, non deve terminare
col ciclo liturgico della Pasqua. La Pasqua di Cristo è eterna, perché Egli,
entrato una volta nella propria gloria, non può più discendere da quel
fastigio. Il cristiano è chiamato anche egli a partecipare di questo carattere
di perennità di resurrezione, giacché egli nella vita spirituale deve
esprimere a sua volta una stabile e continua pasqua.
Nel preludio dell’anafora
consacratoria ed al principio dei dittici, si fa memoria della resurrezione
del Signore, come nella notte precedente.
L’antifona per la
Comunione deriva dal testo di san Paolo, che è stato già recitato nella
lezione: Cristo è la nostra Pasqua. Egli è stato immolato. Banchettiamo
adunque, ma cogli azzimi della verità e della schiettezza; nutriamoci di Lui.
Ogni altro cibo, ogni altro condimento profanerebbero la nostra Pasqua.
Cristo immolato, cibo dei fedeli, indica la passione di Gesù, che dobbiamo
imprimere nel nostro spirito; il pane azzimo poi, non fermentato né
rigonfiato col lievito, significa lo spirito di mortificazione che deve
condire la vita cristiana.
Nella colletta
dopo la Comunione, si ricorda che l’Eucaristia è pegno della Comunione dei
Santi, la quale riunisce in un identico spirito i cuori di tutti i fedeli. È
per questo che in antico i fedeli, nell’atto di ricevere dal proprio vescovo
la sacra Comunione, gli davano l’amplesso di pace, di cui oggi l’estremo
ricordo si conserva in quel bacio che i fedeli imprimono sul suo anello
episcopale. Per l’identica ragione, i sacerdoti s’inviavano reciprocamente in
dono la santa Eucaristia, perché Gesù in sacramento ci comunica il proprio
spirito; in modo che la moltitudine di quei che lo ricevono, in grazia di
Gesù, di cui vivono, formi veramente cor
unum et anima una.
La divina
Eucaristia, mentre è il memoriale della morte del Signore, ce lo rappresenta
altresì glorioso. Essa quindi inocula in noi i germi di morte, per essere a
parte della morte del Cristo, ed al tempo stesso ci mette a contatto e a
parte della resurrezione del Signore.
da A. I. SCHUSTER, Liber
Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul
Messale Romano - IV. Il Battesimo nello Spirito e nel fuoco (La Sacra
Liturgia durante il ciclo Pasquale), Torino-Roma, Marietti, 1930, pp.
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